Oltre l’Eden

L’éden et après (1970) – Alain Robbe-Grillet / Francia

Contorto, perverso, allucinante. L’universo di Robbe-Grillet si presenta fin da subito come una macchina spietata, pronta e disposta a lacerare lo schermo attraverso tutta quella ribellione anticonformista che è propria di geni del mestiere a lui affini come il Resnais di ‘L’anno scorso a Marienbad’. Attraverso la rappresentazione di un mondo deformato e privato della sua struttura convenzionale, l’autore francese mette in scena una parabola quasi onirica, satura di doppi significati e volta a sintetizzare i meccanismi che regolano la vita in base alle leggi dell’assurdo, relegando i personaggi al grado di semplici automi, visibilmente inanimati e trasportati dal genio direttivo del regista come burattini in una rappresentazione follemente quanto geometricamente calibrata.

All’interno di un semplice bar dalle strutture astrattiste vagamente Kubrickiane, il bar Eden, un gruppo di giovani mette regolarmente in scena rituali erotici e paradossali. Quando però uno sconosciuto si aggrega alla combriccola alterandone ulteriormente le pratiche, tutto cambia. Una delle presenti, Violette, viene introdotta in una spirale di follia dove sogno e realtà si confondono e si alterano a vicenda, e in particolare in una vicenda fantastica dove un gruppo di giovani la rapisce per rubarle un prezioso quadro da lei posseduto. Il finale, dove scorgiamo l’ingresso del bar Eden, fa presagire varie soluzioni alla vicenda. È stato tutto un incubo o soltanto una premonizione?

Come descrivere un’opera simile? come riuscire a far luce su uno stile così particolare? Sicuramente trovandoci di fronte a questo ‘Oltre l’Eden’ il primo processo attuabile è quello di astrarsi completamente da una qualsiasi idea di razionale o di reale, atteggiandosi a semplici spettatori, quasi passivi e mentalmente aperti. La patina di surreale che rimane indissolubilmente intrinseca all’immagine contribuisce primariamente alla creazione di un clima instabile e di costante attesa, confermato del resto da un’estasi visiva che divide lo schermo in settori variopinti e rimarcati secondo una precisa volontà geometrica. Ogni movimento, ogni azione più semplice, appare meccanica, quasi telecomandata grazie ad un montaggio frenetico e per nulla empatico. A differenza di altre opere, come ad esempio il successivo ‘Spostamenti progressivi del piacere’, l’opera vive e respira di una logica propria e funzionante, che lega ogni sequenza con la precedente attraverso un nesso prestabilito seppur di ardua codificazione. La struttura stessa suggerisce l’idea di un incubo pazzesco, e l’idea chiave della storia tratta appunto di un incubo, ma anche e soprattutto di un gioco di finzione con una sua morale e un suo valore artistico non indifferenti.

Una storia che infatti riesce a codificare il linguaggio dell’astrazione rendendolo credibile e paradossalmente reale, perfettamente comprensibile, seppur come detto di fatto essa rimanga una storia dominata e suggellata dall’assurdo come genere principale. Il sogno della protagonista va così ad inserirsi all’interno della storia come parte imprescindibile; la scelta di utilizzare gli stessi attori per due parti diverse conferma la volontà di ricreare un mondo parallelo, una sensazione di costante, incredibile dualismo realtà-finzione che è il diamante di punta dell’intera opera. Lo svolgimento inoltre, i fatti a cui assistiamo durante la visione, non contano in quanto tali, ma solo per l’impressione che suggeriscono e per l’idea di fondo che sostengono, ovvero un’ideologia dove la verità si frammenta, la realtà si diversifica fino a scomparire del tutto e l’assurdità del presente domina come alternativa ad un mondo senza certezze ma soprattutto senza logicità.

Logicità che difatti si incentra sul perno della vita vista come illusione, come eterna potenzialità, sequenzialità dunque di atti imprevisti proprio perché illogici o impensabili. Una vita senza scopo, senza appunto una vera e propria matrice che le conferisca un senso, e di qui la scelta di fare un film sul dissenso in quanto tale, sulla scomposizione e re-idealizzazione del presente. L’unica giustificazione presente è quella dell’ingiustificabile intrinseco ad ogni azione quotidiana. La storia tratta di questo, di fatti che acquistano senso proprio perché astrusi e decontestualizzati. In questo senso il ritmo della vicenda, il susseguirsi disordinato e sparso dei fatti, la riproposta di ambigui sdoppiamenti e di morti già avvenute, assumono un’importanza vitale.

Voto: ★★★★/★★★★★

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