Perdues dans New York

Perdues dans New York (1989) – Jean Rollin / Francia

Ciò che rende unici i prodotti dell’autore è probabilmente la capacità dell’autore stesso di combinare tecniche proprie a più generi cinematografici senza per questo stravolgere il canovaccio narrativo, la struttura sceneggiativa, che di fatto resta più o meno invariata. Con Perdues dans New York assistiamo a qualcosa di nuovo ed unico per Rollin, una sorta di sperimentazione su più livelli, narrativo appunto ma anche visivo, laddove a prevalere non è più l’horror in quanto proprio base di partenza su cui poi far evolvere il resto della storia ma il sogno; un fenomeno psichico ma soprattutto qualcosa di sorprendentemente incodificabile, affascinante in quanto imprevedibile, qualcosa di astratto. Ecco allora che, come scatole cinesi, ogni sequenza viene inghiottita dalla successiva, o se vogliamo scema nella precedente, in modo tale da creare un percorso illusorio perso nella nebbia, qualcosa di estremamente rarefatto ed incomprensibile.

Come in un fantasy infatti le due protagoniste, Marie e Michelle, legano il loro destino a quello di una statuetta divina, capace di trasportare i suoi possessori in altri mondi, luoghi lontani, misteriosi o sconosciuti. Ed è cosi che comincia il viaggio delle due alla ricerca l’una dell’ altra, gli anni passano finché un giorno…Si può dire che in un solo film, Rollin raggruppi ogni elemento a lui caro, dai vampiri ai cimiteri fino alle spiagge – l’amore per la spazialità, cercando però al contempo di andare oltre il loro significato. Sì perché l’opera in causa è qualcosa di più di un lavoretto di genere – senza per questo screditare opere peraltro splendide precedenti alla stessa. In questo caso l’impegno è visibilmente maggiore, così come l’ambizione nel cercare una chiave di lettura nuova.

L’atmosfera è fin da subito magica, incantata da queste note al contempo ipnotiche e suadenti, leggere e sinuose che ci accompagnano lungo tutto il viaggio. Ogni sequenza pare vivere di vita propria nel senso proprio di giustificare la propria presenza rincorrendo la bellezza dell’atto in sé per sé: due sconosciute si incontrano nel silenzio più assoluto, si avvicinano lentamente l’una all’altra senza quasi saperne il motivo, gli sguardi si incrociano, i movimenti sempre più lenti e solenni, come in una rappresentazione teatrale, poi avviene il fatto. Appare il coltello, due lunghi canini cercano un collo, che viene di rimando gentilmente offerto. Questo è il chiaro esempio di un’opera che si racconta per enigmi, in cui una sequenza non dipende necessariamente dalla precedente o dalla successiva, senza per questo pretendere di non avere uno script di base, percorso narrativo che invero non viene mai perso di vista, un controsenso solo in apparenza.

Nuovamente Rollin si dimostra essere un autore capace e competente, in grado di suggerire senza scandalizzare, turbare senza eccedere. Il suo potrebbe essere definito un erotic horror, l’arte di fondere insieme due espressioni apparentemente inconciliabili, far convivere la violenza più truculenta con la bellezza più sensuale ed erotica, suggerire forme affascinanti imbrattate di sangue. PDNY ripropone il concetto (che , per chi volesse, osserviamo al suo apice nel precedente ‘Fascination’) sviluppandone una sorta di antidoto: slegarsi dal ‘genere’ realizzando un film che racconta, affascina e sorprende ma soprattutto un film che esprime qualcosa, parla di legami forti e immortali, del significato stesso di tempo, dell’incredibile potenza di una semplice storia, una pagina scritta o una bozza di disegno ed il tutto splendidamente incorniciato da una regia e in generale di un comparto tecnico impeccabili. Due bambine, due donne, due anziane signore, immutabilmente, al contempo in tutt’e tre le forme, unite e separate da un sogno, uno spicchio di luna intagliato nel legno.

Voto: ★★★/★★★★★

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