That Cloud Never Left

That Cloud Never Left (2019) – Yashaswini Raghunandan / India

La vita di un modesto paesino indiano scorre quieta e ripetitiva, fatta di piccole attività e gesti abitudinari. Il cuore, il segreto dell’operosità ivi osservata, risiedono in una pratica molto particolare, quella cioè di riciclare pellicole in disuso della vecchia Bollywood sfruttando il materiale per costruire oggetti di ogni tipo, prevalentemente giocattoli e utensili di uso quotidiano. Eppure questa è soltanto la premessa al fulcro dell’opera, ciò che di fatto ne giustifica lo sviluppo. Un’eclissi lunare totale (per di più rossa) viene annunciata dai telegiornali del luogo, un evento storico dal significato ben preciso, pronto a incidere singolarmente sulle vite dei protagonisti. Le loro reazioni paiono quasi casuali, contestuali al normale svolgimento delle mansioni ad ognuno relative; al contrario, l’intima percezione che l’autore ricava del soggetto proposto risiede nell’impatto sullo stesso di una prospettiva distorta, velata cromaticamente da quel rosso che le stesse pellicole così bene proiettano in ogni dove.

Opera prima per il regista indiano, questo ‘That Cloud Never Left’ pare non risentire affatto delle trappole che ciò comporti, manifestando anzi apertamente la volontà di porsi su più piani analitici. Sottostimando la narrazione per come classicamente intesa, il fine è altresì quello di sottolineare quanto arbitrario sia l’occhio che ne trae le conclusioni. Di conseguenza, destabilizzare l’ottica dello spettatore comporta in primis  un capovolgimento dei valori cromatici legati ai soggetti via via osservati: un cielo, un volto, una vasta zona boschiva e così via.

È Cinema Avant-Garde, e l’autore non si premura di attenuarne gli effetti pratici, le pellicole scorrono libere sullo schermo disperdendo miriadi di colori, personalità, situazioni: intere vite racchiuse all’interno di singoli fotogrammi, gamme cromatiche ne fuoriescono freneticamente. I personaggi dunque vivono attraverso la pellicola o è la pellicola a vivere attraverso di essi? dove termina la memoria – e quanto ad essa legato – l’arte della rappresentazione, la finzione, l’atto stesso di registrare, immortalare un dato evento e in che misura presente e futuro possono porsi nei confronti di tutto ciò?

Il processo alla base è sostanzialmente equiparabile a quello attuato da un sistema bifocale laddove a fare da metro, da unità di misura, non è più la distanza (come per delle comuni lenti) bensì la realtà stessa, la medesima – a tratti – vista sotto le spoglie di una pellicola, o per meglio dire ciò che essa diviene, restituita infine a nuova vita. Quest’ultima infatti scorre a volontà disperdendosi in infiniti frammenti, infinite storie che narrano di mondi fantastici, la si può osservare dovunque, proiettata su mura, televisori finanche a prendere completo possesso della scena e vincere ogni altra fonte di illuminazione.

La stessa pellicola finisce, specie sul finale, per prevalere sul buio, che a sua volta annuncia l’eclissi, un’eclissi lunare imminente: il film si perde nell’oscurità, il che non è sinonimo di nefasto anzi, allude (non a caso) al luogo della camera oscura, proprio quella del fotografo. Poco prima del termine, l’opera abbandona lo spettatore gettandolo nel buio: ora egli ragiona in funzione di quel rosso, osservando per suo tramite. A sua volta i protagonisti si muovono in quel rosso in un finale che prova a suo modo – omaggiandolo – a ribaltare il parossismo apocalittico del ‘Melancholia’ di von Trier: in attesa che la nuova luna tinta di rosso centri il grande occhio in cima alla scala.

Voto: ★★★★/★★★★★

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