Untitled #1 (sun vision) (2019) – Barbara Sternberg / Canada
È un bene, in effetti, che all’opera non sia stato concesso un titolo più specifico, o per meglio dire più orientativo, ciò in linea generale non si sposa opportunamente con linguaggi visivi propriamente sperimentali. Ci viene concesso giusto un accenno a quella che potrebbe essere una sensazione, una memoria o più semplicemente un’idea, qualcosa su cui porre l’accento. Certo è che a visione ultimata si percepiscono un calore e un’intimità davvero singolari con l’autrice – Barbara Sternberg – come se l’intera opera rappresentasse un viaggio, un itinerario più o meno arduo che non è ricerca e nemmeno divenire, piuttosto raccolta. Quest’ultimo termine riassume un concetto fondamentale, in quanto ‘raccogliere’ suggerisce come un atto di radunare qualcosa, ma non necessariamente con ordine: si tratta di presentare immagini familiari alla Sternberg stessa, affini agli stati d’animo ricercati e coerenti con la linea narrativa proposta.
Una linea che segue mostrando momenti non sequenziali e mai collocati temporalmente se non per i rispettivi tratti stagionali. Sono infatti le stagioni a caratterizzare la pellicola: evocano sentimenti ben precisi, tanto precisi quanto lo è, come detto, l’intima valenza che li giustifica. ‘Untitled #1 (sun vision)’ fa da specchio al soggetto, BS in questo caso, colto nel privato. Il momento è quello di transazione dell’esistenza, non più giovane ma al contempo non ancora anziano: tanto il passato alle spalle quanto il futuro davanti a sé. Queste impressioni contrastanti, questo amalgama di stati, il tutto viene interpretato autorialmente. Non più forme, linee e confini ben precisi, all’opposto stati in transazione, in procinto di mutare in qualcosa d’altro, di indistinto, fatto nuovo.
D’altro canto, ulteriore presupposto è quello di verificare la coerenza degli stati amorfi nell’ottica del cosiddetto quotidiano; in tal caso l’osservazione dei fenomeni ordinari, consueti, si potrebbe ritenere più o meno accessibile, ciò non nega (piuttosto ottenebra) l’importanza di velare l’immagine appena definita, disturbarla, offuscarla. L’obiettivo non è rendere astruso, incodificabile, qualcosa che di prassi si fatica a non trascurare (come detto dunque scene di vita quali strade innevate, passanti, elementi naturali ecc), lo spettatore è portato a trovare un nesso ed un’armonia tra ciò che l’immagine stessa ora rappresenta e lo stato d’animo provato nell’esperire l’opera, perché questo è ciò che l’autore si aspetta – o si augura – avvenga.
Essenzialmente, tradurre gli impulsi in impasti cromatici come in questo caso, è un lavoro artistico, quello del pittore (pre-impressionista parrebbe, a giudicare dalle influenze avvertite), il che indica una tendenza al tradurre un modo di essere più che un concetto o un’idea. La frenesia avvertita nel corso della visione ad esempio, tradisce un’inquietudine cardine per la comprensione della disposizione psicologica dell’autrice. D’altro canto, il frequente ricorso a colori caldi, abbinati a loro volta ad immagini d’infanzia e vaghi ricordi – specie nella prima metà dell’opera – sembrerebbe suggerire una certa lietezza. Tutto ciò per dimostrare la forza e la varietà degli stimoli che muovono l’autrice sospingendola ora da una parte ora dall’altra a seconda dell’immagine messa a fuoco, sempre e comunque indistinta, fosca, lontana – come si direbbe di impetuosa corrente ansiosa di giungere alla sua foce.
Voto: ★★★★/★★★★★