Dark in the White Light

Sulanga gini aran (2015) – Vimukthi Jayasundara / Sri Lanka

Niente è come sembra, l’apparenza può celare mostruose deformità. Una norma questa apparentemente banale, che però racchiude al suo interno insegnamenti estremamente profondi e soprattutto difficili da afferrare e da mettere in pratica. La vita di ogni individuo è contraddistinta dall’approccio dello stesso ad essa, dal sopraggiungere dei diversi istinti. Si può ricercare la propria via nella meditazione, nella contemplazione ascetica, oppure ci si può semplicemente abbandonare, piegarsi agli istinti primordiali e nocivi, come una bestia priva di intelletto. Dunque, proprio di queste due scelte parla ‘Dark in the white light’, scelte che alla fine riconducono alle basi dell’esistenza stessa, agli eterni dualismi che la comandano: coraggio-viltà, perseveranza-debolezza, peccato-virtù, vita-morte.

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Un monaco, un dottore, un avido speculatore, un autista privato. In molte anime ci imbattiamo durante questo viaggio cupo e perverso. Da un incipit prettamente riflessivo dove osserviamo un monaco buddista e il suo incipiente immergersi nella natura alla ricerca del Nirvana, arriviamo alla routine quotidiana di un rispettabile medico, ancora di salvezza per gli infermi di giorno e violento, sadico, stupratore alcolizzato durante la notte. Morte, dolore, rimorso, ogni tipo di sentimento arriverà a colpire i personaggi, il tutto fino ad un finale sconvolgente, dove, tra verità e leggenda, ogni tetra, oscura rappresaglia divina verrà esaudita.

Nel folto di una foresta scorgiamo un monaco, l’impersonificazione del pensiero irrazionale, della ricerca interiore, dell’eterna fiducia nell’uomo. La sua figura funge, questo è chiaro, come da esempio, da proiezione materializzata e materializzante dello spettatore, il suo spirito è la luce che ci guida nel inestricabile groviglio tenebroso che è la storia, quella reale. Il medico infatti è il vero fulcro dell’intero film, è lui il fedele, imperterrito sconforto che declassa l’uomo allo stato di sconfitta esistenziale che gli appartiene. La perversione è, e diventa qui, non la deformità di uno specchio bensì solo e solamente lo specchio di una deformità, di ciò che realmente appare e diventa credibile: in contrapposizione a tutto ciò si abbatterà nell’astratto, superiore, universo del monaco lo stesso grado di malvagità e nefandezza che imperversano nella vita reale, quella di chi vive stando (più o meno piegato) alle regole del mondo umano. La linea di demarcazione è resa con sottile perfezione artistica e con grandissima intelligenza: non esiste un confine tra la purezza e la malvagità, o meglio esiste solamente agli occhi di un’ipotetica entità superiore. L’oscurità che soffoca e sovrasta la luce, e che dà vita al titolo, testimonia dunque proprio questo stato di cose, ovvero l’inesistenza di una fondatezza qualsiasi, di una regolamentazione sovrannaturale.

La vicenda è di per sé strutturata con estrema intelligenza sia narrativa che filosofica, ogni elemento gravita perfettamente nel suo spazio adibito. L’uomo come emblema di un’impotenza immanente, insita e appurata, come eterna sconfitta per antonomasia. L’orribile susseguirsi di eventi che domina la pellicola e ne dipinge la cornice è necessario, è prestabilito, così come è prestabilita la purificazione definitiva e successiva. La morte perciò non come inizio o come fine, piuttosto come evento dalle insondabili conseguenze, punto incalcolabilmente minuscolo all’interno della vita. ‘Dark in the white light’ si può definire conseguentemente come un’opera necessaria, fonte di un’interpretazione fedele e irreprensibile. Un dramma incredibilmente spaventoso, poetico e armonioso nella sua struttura, nei versi quasi profetici e ritmati del buddista ad inizio opera, ma anche ottenebrante, perverso e infine catartico nel suo nucleo centrale e nel suo divenire. Un’opera che condanna la fede osservandola da vicino, catturandone gli attimi più intimi e insondabili, un poema di ardua codificazione, di ancora più ardua accettazione, dove il Male realmente sta alla base di un un pensiero critico profondo e di un vissuto visibile, non troppo dissimile dal von Trier di ‘Antichrist’ o dal Bresson di ‘Au Hasard Balthazar’.

E come ogni grande opera il finale non può che vaneggiare, eludere ogni risposta, ritornare all’origine gravitando nella leggenda, nella mancanza di risposta, quella che un gruppo di amici racconta senza interesse e senza certezze. Tecnicamente ineccepibile, lento, costantemente in attesa, scandito da un’improvvisa brutalità che racconta più di un’infinità di parole proprio per il suo perfetto inserimento all’intero dell’opera.

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Voto: ★★★★/★★★★★

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