Mulholland Drive

Mulholland Dr. (2001) – David Lynch / USA

Folle, inquietante, mostruoso succedersi di eventi apparentemente slegati; labirintico, paralizzante, ipnotico. ‘Mulholland Drive’ è un’opera talmente unica nel suo genere da racchiudere in sé una moltitudine di possibili interpretazioni e definizioni tali da renderlo un vero e proprio grandissimo film, punta di diamante dell’intera filmografia del genio americano di David Lynch. Qui l’autore, in un alternarsi, e per certi versi intersecarsi, di rimandi surreali, gialli, horror e grotteschi, crea una pellicola deviata e deviante, imperniata sul concetto di de-mistificazione e di illogicità della realtà, dove l’immagine diviene l’emblema riassuntivo del mondo lynchiano, simbolico, mai lineare, frammentato, spaventosamente tangibile ma soprattutto scandito come un metronomo e contraddistinto da una tecnica ineccepibilmente perfetta. Guardare Lynch e farsi assorbire  dalla perversità del suo mondo diviene un tutt’uno, così come rimanerne scioccati e invischiati per l’inafferrabile fascino della sua estetica.

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Non risulta a conti fatti solo riduttivo ma anche e soprattutto letteralmente impossibile tradurre l’opera in parole, data l’immensità dei fili conduttori e l’altrettanta moltitudine di fatti. Secondo la versione puramente logica, ovvero quella apparentemente presentata, il film vede incontrarsi le strade di Rita affascinante bruna, Betty, aspirante attrice, e Adam, regista sadicamente minacciato e torturato col fine di imporre una sconosciuta volontà nella produzione del suo film. Le drammatiche vicende della prima hanno portato alla sua completa perdita di memoria. Insieme le due donne proveranno a risolvere il mistero, svegliando però forze ben più terribili e arcane di quanto non pensassero possibile e infine innamorandosi l’una dell’altra. C’è una logica nel continuo e dominante succedersi di episodi onirici, inquietanti e spesso in apparente contrasto tra loro? Forse.

Riprendendo le fila del discorso precedentemente iniziato con opere come ‘Velluto blu’, ‘Cuore selvaggio’ e ‘Strade perdute’, Lynch torna a manifestare il suo inconfutabile interesse per il lato misteriosamente inquietante dell’America tipo: quella popolata da gangster spesso inconoscibili, donne schiave della loro perversione e bellocci in balìa del misterioso potere del male. Se però in precedenza tali argomenti erano affrontati con gli sprazzi di linearità e chiarezza di un regista ancora in fase di ricerca e di scoperta dei propri mezzi, qui la piena maturità dell’artista viene immancabilmente a fondersi in un’opera in tutto e per tutto ineccepibile, dove tutto si fa fosco e oscuro, ma di un’illogicità che spinge verso una ripresa del mondo e dell’ambiente senza dubbio limpide e geniali. Il Cinema di Lynch è palesemente un Cinema di domande, non certo di risposte; ma da tutti questi misteriosi quesiti ne emergono volontà spesso critiche e riflessive oltre che estetiche, dove la rappresentazione del mondo in tutti i suoi vizi e i suoi “cancri” annidatisi da tempo coincide con una presa di posizione e sociale e filosofica. Ciò che collega e contraddistingue tale metodologia è prevalentemente la maniacale ossessione per il simbolismo, che prende forma all’interno dell’opera modellandola e stratificandola. Esso si riscontra spesso in particolari insignificanti, come una minuscola scatola scura, una tetra rappresentazione teatrale o un incubo apparentemente inesistente che prende vita; ma oltre a ciò esistono tanti e tali significanti da sbalordire, primo su tutti lo sdoppiamento di personalità delle due protagoniste, le cui sorti e identità si confonderanno e intrecceranno in spaventosi avvenimenti e sortilegi.

Lynch non va analizzato né codificato, ma solamente vissuto e apprezzato per ciò che comunica a livello visivo, e che lo rende in definitiva valido e insuperabile (e in questo il rimando a ‘Eraserhead’ è immediato). La cupa, tenebrosa, muta atmosfera scandita solamente dalle note dell’abilissimo Angelo Badalamenti probabilmente vanta molti più pregi di quanto non possa sembrare a primo sguardo; la sua incredibile funzionalità all’interno dell’opera, il suo immancabile fondersi con la criptica, costante, terrificante attesa nel quale lo spettatore viene immancabilmente gettato, incrementa ulteriormente l’impressione di illogicità e paura. I dialoghi ridotti all’osso e mai definitivi, gli sviluppi sempre più inspiegabili. Non è dunque una soluzione ciò che l’autore vuole prospettarci a visione ultimata, quanto la conferma dell’esistenza e della palpabilità dell’orrore e dell’insensatezza all’interno della vita. Perché il Cinema, nel momento stesso in cui si rifà ad un qualsiasi concetto di realtà, smette di abbisognare di un qualunque significato per trasformarsi esso stesso in definizione, scisso da ogni altra spiegazione o referente. E col maestro in questione è esattamente a questo che assistiamo, al convertirsi dell’immagine in definizione del reale per mezzo dell’estetica, e quest’ultima giustifica e avvalora l’assenza di un qualsiasi contenuto o fondamento di particolare valore.

L’impossibilità di autodeterminarsi e di compiere liberamente le proprie scelte, l’incombenza imperitura del Male in ogni sua forma sull’uomo, tutti questi aspetti diventano precetti nella poetica del regista, e ognuno di tali concetti viene avvalorato e supportato dal fondamentale apporto e contributo del lato tecnico. Una regia lenta, acuta osservatrice, amante polanskiana delle tenebre e dell’opprimente presenza della claustrofobia, resa attraverso inquadrature strette e serrate o fisse nel buio totale. Lynch si rende dunque primo attore tramite l’ossessione e la ripetizione sfaccettata di gesti, azioni e inquadrature, tutte rimandanti a precisi significati. Le stonature con l’atmosfera (come i canti e i balli su sfondo variopinto) inventate dallo stesso regista, accrescono la sensazione di timore opprimente. Una riuscita nel complesso straordinaria e decisamente ipnotica: Lynch supera se stesso con un lavoro pressoché unico nel suo genere seppur memore di atmosfere noir e gialle, tramutando il racconto stesso in un trip allucinante e perverso che narra pur senza narrare e che affascina pur nella riproduzione dello squallore. Un’opera da apprezzare così com’è, perfettamente illogico, sadico e mai senza scopo, in una parola: “Silencio”.

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Voto: ★★★★/★★★★★

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