Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Loong Boonmee raleuk chat (2010) – Apichatpong Weerasethakul / Thailandia

Le vicende sono quelle di un uomo allo stadio terminale di una malattia ai reni che si ritrova a riflettere e a tirare le somme della propria vita insieme alla reincarnazione del figlio morto e all’inaspettato ritorno della moglie, anch’essa già morta anni prima. E così, insieme ai suoi cari, decide di intraprendere un ultimo viaggio verso una grotta, per prendere coscienza della sua più intima e naturale essenza, dei suoi possibili e inimmaginabili passati, presenti e futuri, per abbandonare un mondo preparandosi al successivo.

Che Weerasethakul fosse un regista votato fin dal suo primo lavoro alla riflessione e alla contemplazione trascendentale dell’essere, senza compromessi e senza mediazioni di alcun tipo, questo si era già intuito. Di certo però, soprattutto in questa sua penultima opera, si nota uno sviluppo e una crescita tecnico-narrativa davvero maestosa, che riesce finalmente a coniugare e a far convivere alla perfezione la grandezza e l’imponenza contenutistica con una logicità e una linearità formali e sceneggiative superiori e degne di esser viste e apprezzate. Tornando sui temi a lui cari della reincarnazione e della convivenza spirituale e trascendentale tra uomo e natura, tra essere umano e animale, il maestro tailandese crea una sinfonia artistica profonda e dai toni davvero singolari. Qui difatti notiamo una perfetta sintonia tra il dramma umano del protagonista e l’elemento profondamente riflessivo e contemplativo della sua vita e dei diversi significati e reinterpretazioni materiali della suddetta. Se ad esempio in ‘Tropical malady’ non vi era un nesso chiaro e chiarificatore, ma soprattutto una sequenzialità logica tra i fatti narrati e i diversi sviluppi logici sovrannaturali degli stessi, nel suddetto tutto ciò si ribalta in una concretezza spiazzante, viste poi le estremizzazioni surreali degli elementi in gioco (in particolare delle ripresentazioni di moglie e figlio di Boonmee).

Se quindi da un punto di vista puramente concreto e materialista notiamo una voluta estremizzazione concettuale, e qui ci si riferisce anche al viaggio spirituale intrapreso nella seconda parte del film dal protagonista, assolutamente la parte più mistica e di complessa interpretazione, osservando invece l’opera nella maniera più corretta e voluta dall’autore, notiamo una sintesi umana e di pensiero stravolgente, dove ogni elemento di vita (dai traumi passati a quelli presenti, dalle questioni irrisolte a quelle da comprendere meglio, fino alla concettualizzazione di un futuro sconosciuto e per questo da sfatare in tutta la sua enigmatica e materiale presenza) viene personalizzato e soprattutto minuziosamente analizzato, ma da un punto di vista profondamente filosofico e sovrannaturale; partendo cioè dal presupposto di una vita legata, più che alla materialità, ad un filo invisibile e onnipresente che leghi ogni elemento della terra in maniera vicendevole e soprattutto per mezzo di un’anima e di una sua intrinseca intelligenza, che è il punto chiave delle opere del regista ma anche il nucleo del suo intero ragionamento. Ed è così che in questa chiave di lettura, dove ogni essere comprende la propria sequenzialità e soprattutto infinita presenza all’interno del ciclo vitale dell’universo, e dove esso stesso sente il bisogno di interrogarsi sullo scopo dello stesso e sul senso del proprio inserimento all’interno di esso, in questa chiave di lettura la proposta di un nesso tra vita e morte, ma ancora più in generale di un unico demolire le strutture preconfezionate e standardizzate del vivere, assume una logica e un’indipendenza concettuale mostruosa. Le figure del figlio, reincarnato nel corpo di un uomo-scimmia, e della moglie-fantasma perciò, in tutta la loro connessa forza e difficoltà di accettazione, diventano perfettamente in linea e come delle anime astratte, fuori dal concetto spazio-temporale, funzionali al traghettamento dello zio Boonmee in ciò che sarà il post-vita, e cosa sarà?: un qualcosa, come direbbe Socrate, da accettare per come è, di cui non aver paura, ma soprattutto non la fine della propria essenza, nemmeno di quella materiale (e qui si forma la personale interpretazione del regista).

Ma lungi dall’essere unicamente una meditazione trascendentale e metafisica la seguente è anche una pellicola umana, fatta di sfumature e quindi non solo di drammi. E nel mezzo delle vicende principali infatti vengono inserite da Weerasethakul anche delle parabole ironiche e scherzose, che giocano sempre sul nesso tra la vita e la morte e tra il naturale e il sovrannaturale. A questo senso uno dei massimi picchi di attenzione del film è costituito dalla parabola del pesce gatto e della principessa: qui l’autore vuole forzare, forse in maniera troppo eccessiva e generalizzante, un collegamento tra le diverse “maschere terrene” che gli esseri viventi hanno, unendo quelle di un pesce-profeta e di una bella donna prostrata davanti alla sua sapienza e disposta (come infatti farà) a donare ad esso il suo corpo in un atto sessuale che volutamente si spinge oltre l’accettazione dello spettatore.

Voto: ★★★/★★★★★

Questa voce è stata pubblicata in Slow Cinema e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento