Le charme discret de la bourgeoisie (1972) – Luis Bunuel / Francia
Sei esponenti della media borghesia francese si ritrovano svariate volte insieme per cenare, ma per diverse ragioni non riescono mai a portare a termine il pasto, che sia la polizia, l’esercito, o piuttosto un sospetto di retata. Di qui poi assistiamo ad una serie di incubi surreali, uno per ognuno dei personaggi, che in tutto il loro svolgersi grottesco si mescolano con il tentativo di desinare degli stessi e con strani racconti di sogni raccontati da perfetti estranei, ma il finale è sempre lo stesso: tutti insieme percorrono una strada asfaltata deserta, tutti seri e trafelati, tutti grottescamente posseduti nella loro compostezza.
Il cineasta spagnolo mette di nuovo in piedi il suo castello di critiche nei confronti dei capisaldi della società moderna come la borghesia, l’esercito, la polizia, la religione, la politica, il sesso, utilizzando come costante una vena narrativa ironica, fortemente incentrata sui comportamenti sregolati e bigotti dei personaggi che, da perfetti consapevoli, si ritrovano invischiati nelle reti conformiste e burine della stessa società nella quale sguazzano, che così falsamente sfruttano, e con la quale, insieme alle loro finte buone maniere, mascherano la loro pochezza e povertà di spirito. Sequenze come quella della preparazione del buon martini dry, o come quella dello smerciare cocaina proprio durante un discorso di auto-celebrazione di perbenismo, sono il perfetto manifesto di una comunità malata proprio nelle fondamenta, legata ad una serie di abitudini marce fin nelle radici, che palesano un tipo di comportamento tanto standard e diffuso, quanto grottescamente falso proprio a causa del suo essere dato per assodato e perfettamente consono alle circostanze mondane. I loro discorsi sono futili, unicamente basati sull’organizzazione della stessa, identica routine quotidiana, i loro comportamenti inappuntabili, le loro conoscenze impeccabili, ma dal fondo viene a galla la verità di una futilità e malattia intrinseca alla loro posizione, propria del loro status borghese e non di loro in quanto singoli individui.
Attraverso il suo attore feticcio Fernando Rey, qui nei panni del corrotto Don Raphael, Bunuel colpisce nel profondo demolendo concetti davvero pericolosamente importanti nella società d’oggi. Il ritratto che ne viene per esempio fuori della Chiesa è davvero duro, un vero e proprio colpo basso: il vescovo della città che implora per diventare giardiniere e commesso e che dopo aver perdonato un moribondo nel suo capezzale di morte lo fredda con un colpo di fucile: sbalorditivo. Un ricco ambasciatore che traffica in droga e seduce le mogli altrui (con il consenso del marito), un gruppo di amiche che si ritrova insieme discorrendo di argomenti insensati senza voglia, passione o interesse alcuno.
Con questo suo affresco d’attualità, Bunuel dipinge un mondo insapore, senza sfumature nè passioni, senza sentimenti o interesse per ogni tipo di argomento salvo l’organizzazione dei propri incontri, dove ogni perbenismo diventa profondamente sgradevole a causa della suo essere falso: falso come la cena che in uno degli incubi del film i sette amici si troveranno a mangiare, o per meglio dire a recitare, ritrovandosi senza saperlo sopra di un palco teatrale, osservati da un pubblico sconcertato e sdegnato. Falso come il perbenismo che tutto d’un tratto non regge più e sfocia in una sfuriata di rabbia (del capo dell’esercito nei confronti di Don Raphael), o ancora falso come la cultura che un borghese dovrebbe avere perlomeno delle basi della geografia, senza confondere l’Egitto con l’Argentina o il Venezuela (come fa il vescovo sempre con Don Raphael). Ed in una simile visione, bigotta e menzognera, che l’elemento onirico e surreale della tecnica si fonde con la storia stessa, rendendo ogni sequenza dello stampo appena citato come un tutt’uno con la storia, in perfetta sintonia ed armonia col resto. Procedendo con la visione lo spettatore si accorge di una naturale sovrapposizione tra fantastico e normale che non è data solo dalla resa tecnica ma anche e soprattutto dal fondersi dei due concetti in un tutt’uno di significati. Viene infine palesata, tramite la presentazione sempre più assidua delle scene oniriche, una volontà di scherno e canzonatura tale da rendere di fatto il film un limpido attacco a carte scoperte, tanto sfacciato e scorretto quanto per contrasto (ed è questo il punto forte della pellicola) divertente e assolutamente godibile.
Il punto di vista corale appoggia una visione globale che esibisce le vicende dall’esterno, pur palesando fin da subito una fortissima soggettività, in maniera del tutto spregiudicata e denigratoria, illustrando quindi un contrasto tra soggettivo ed oggettivo assolutamente vincente e particolare, che crea una sensazione di strano convincimento e di veridicità di quanto si osserva che è poi lo scopo primo del film. Lo stacco delle scene è sempre delicato e graduale, il ritmo è cadenzato, punta alla resa di una quotidianità noiosa e ripetitiva, ed ogni scena astratta è collegata sapientemente e anche a livello semantico con la sua precedente, creando un cerchio infinito di situazioni che si ripetono estenuanti tra normale e fantastico, finendo per porre sullo stesso piano entrambe le realtà.
Voto: ★★★★/★★★★★