Viskningar och rop (1972) – Ingmar Bergman / Svezia
Di tutti i severi, inquisitori sguardi di Bergman, ‘Sussurri e grida’ è forse quello che più si lascia ricordare, il più complesso, a livello artistico ma anche psicologico, sociale, religioso: si può quasi dire che sia il suo film più completo e maturo, non a caso il più travagliato e dispendioso per l’autore. Il ritratto di un nucleo familiare rovinoso, placidamente invischiato in una rete di dogmi, rancori e falsità senza soluzione. Karin e Maria fanno da balie, insieme alla badante Anna, alla sorella Agnese, gravemente malata ed anzi ormai in fin di vita: attraverso il rapporto che le due avranno con la moribonda si intuirà la definitiva distruzione del nucleo familiare. Solamente Anna, grande compagna di Agnese, troverà la forza di restare accanto a quest’ultima allietandone le ultime ore.
La durezza d’impatto dell’incipit permette di farsi un’idea su quale siano i propositi dell’autore, quali saranno i ritmi dell’opera. In particolare vengono approfonditi i punti di vista di Karin e Maria, i loro problemi coniugali e familiari. Entrambe sono l’emblema di tutto ciò che l’autore punta a mettere in crisi, il prodotto di una società: donne senza morale, senza sentimenti, impossibilitate a provare un briciolo di amore o compassione per chiunque. I loro matrimoni sono fallimentari come fallimentare è ogni loro tentativo di intessere una qualsivoglia relazione umana; persino il loro vicendevole sforzo di avvicinarsi risulterà nullo, altro non sono se non schiave di loro stesse.
Diametralmente opposta la figura di Anna che, tra tante, sarà l’unica a portare luce all’interno della disperazione: l’ipocrisia delle sorelle risulterà nefasta e la loro ostilità verso la giovane badante è un ulteriore segnale di quanto già detto. I sussurri e grida del titolo, in voluto contrasto, sono quelli utilizzati dalle protagoniste: i tremendi sussurri dolorosi di Agnese, cullata come la pietà del Michelangelo da Anna, e le grida folli di Karin e Maria. Ma Bergman torna anche sul discorso morale, oltre che su quello sociale. Il tema religioso infatti non viene tralasciato, anche se meno inquisitorio del precedente ‘Luci d’inverno’. Anche qui ci vengono mostrate le sofferenze di una donna, una fede di fatto allontanata con veemenza ed esorcizzata. Gli incredibili patimenti di Agnese, al centro dell’attenzione comune, scandiscono l’opera ad intervalli infondendo una muta sofferenza.
Più ampio invece è il discorso relativo al lato tecnico. Lo spettatore viene reso partecipe delle diverse evoluzioni, dei sottintesi tra i vari protagonisti nonché dei loro stati d’animo attraverso un complesso lavoro direttivo: combinazioni cromatiche, geometrie e organizzazioni spaziali dell’inquadratura ma altresì temporali. Il senso del tempo è appunto reso unicamente dall’orologio della casa, le cui lancette si notano spesso scorrere frettolose, come nella scena del decesso della malata. Di grande interesse l’impiego del colore. L’intera casa, la folta chioma fulva di Maria, i piccoli dettagli, tutto è dipinto di rosso, che assume qui il significato di dolore. Le vicende delle donne, riprese in primo piano su sfondo nero, sfumano sullo schermo attraverso l’uso del rosso: sono i ricordi delle protagoniste stesse a diventare rossi, tanto più forte è il colore quanto più grande il tormento che viene comunicato. Gli abiti, partendo dal rosso, variano in un bianco limpido e in corvino, sempre estremamente solenni.
Voto: ★★★★★/★★★★★