La valle chiusa

La vallée close (1995) – Jean-Claude Rousseau / Francia

Una lezione di geografia in onore della madre, maestra di scuola elementare. Rousseau introduce con queste parole il suo film-diario, un viaggio che si concentra nei luoghi semi-abbandonati della Valchiusa, in Provenza, per riflettere su ciò che non ha possibilità materiale, né influenza terrena. Nelle sue diciotto lezioni Rousseau riscopre la bellezza di un paesaggio, la meraviglia di ciò che è gratuito, che proviene dalla Natura e la va a costituire, assapora il piacere di un soggiorno presso un ambiente impenetrabile, fortemente allegorico. È l’immagine tendente al sacro, prova della partecipazione ad un evento del tutto straordinario.

Un atto di fede. Così il film viene definito dall’autore. L’immagine diviene pertanto portavoce di un pensiero che sosta al di là dell’interpretazione profana. La sua staticità è al servizio della prospettiva e diviene fondamentale nel processo di rappresentazione temporale. Si può dire che l’opera in sé risenta di un carattere decisamente fotografico, a tratti rinviante alle pellicole di Peter Hutton, in particolare ‘At sea’; anche qui lo spazio è oggetto di indagine mistica, perlustrazione che sfugge alla cronografia e che proprio perciò raccoglie sequenze dove la sincronia naturale degli eventi è padrona della scena. Il vento, i monti, le sorgenti restituiscono quest’idea di un’armonia genuina tra gli elementi del cosmo che conclude un equilibrio universale empiristico e al contempo spirituale.

Rousseau scruta immobile quei luoghi, perlustra lo spazio circostante con sguardo infantile, come fosse sempre la prima volta. E così, un canto di gloria si alza sui paesaggi umili della Provenza, affascinanti nella loro modestia ed infinita ordinarietà avvolta da un vuoto. Il vuoto magnetizzante che ricopre ogni sequenza del film. Ma come rappresentare il vuoto (ciò che tanto attira l’autore)? L’immagine di un dirupo appare ripetutamente nella pellicola. Non si vede mai ciò che sta alla fine di quel precipizio, la prospettiva ce lo nega, ed è proprio questo, forse, ciò che alletta di più. I turisti si recano numerosi a scrutare quello scorcio, l’idea del vuoto (li) affascina. Annientare la distanza e vivere quel vuoto è proprio ciò che il film si propone di fare, e lo capiamo bene attraverso la riproposizione di quella sequenza tanto esplicita, d’altronde varie sono le interpretazioni che si prestano ad analizzare quest’esperienza. Il vuoto si contrappone alla materia, è l’assenza di quest’ultima, e in qualche modo rimanda ad una mancanza nel disegno delle cose, una sorta di fallimento. Dunque, da una parte l’ordine universale, dall’altra il vuoto. La loro convivenza appare di primo impatto ossimorica, ma non lo è affatto. Vige un contrasto nell’immagine posta da Rousseau che fa luce sulla contraddizione nell’esistenza stessa dell’uomo; non sussistono incoerenze poiché il vuoto è parte stessa delle cose, principio e fine di tutto. L’ordine ha senso solo in rapporto a ciò che lo legittima, il vuoto, che, se è vero sia origine di angoscia, è altresì estremamente intrigante appunto per la pienezza filosofica rivestita. Non più una concezione di timore verso il vuoto, JR pone le basi per una nuova visione dello stesso: è parte integrante dell’essenza radicata nella realtà, è fondamento di vita.

Voto: ★★★★/★★★★★

Questa voce è stata pubblicata in Avant-garde, Cinéma Vérité e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento