Agyat Shilpi (2017) – Amit Dutta / India
Si parla di un oggetto arcano, lontano dal tempo e dallo spazio sovente intesi, qualcosa che si muove cheto sondando i rapporti che legano l’uomo all’ambiente, al proprio Dio, ai propri mezzi e alle proprie capacità. In un indefinito varco storico, un interminabile Eden si staglia tra distese boscose, promontori e picchi rocciosi pronto ad accogliere il tempio perfetto, ciò che misurerà la grandezza dell’uomo-artigiano e le sue doti (i quaranta giorni che il Signore si preparò ad affrontare nel deserto). Dutta si confronta nuovamente con la pura e semplice materia, con tutto ciò che definisce la grandezza dell’uomo. L’architettura in questo caso diventa il mezzo ideale; essa, o meglio i suoi semi (parola spesso ricorrente nell’opera), rispecchiano lo stesso, in un certo senso lo dominano, lo determinano. Ma, prima di confrontarsi con sé, l’uomo-artigiano deve superare terrori, insidie, tentazioni ed ostacoli che il suo Dio gli porrà sul cammino. Mancando d’orientamento, l’obiettivo stesso si capovolge, i tempi si dilatano, i gesti si perdono nel vuoto echeggiando tra le pareti scavate nella roccia del tempio di Masrur, immensa opera d’arte mai completata. Ciò che pare statico però si rinnova nel tempo, non si deteriora, si inserisce all’interno di uno scenario sempre più vasto.
Quest’ultimo a sua volta si nutre della spettacolare spiritualità che lo distingue. In un tripudio di gesti sacri, pose meticolosamente studiate per confondersi con l’ambiente, AD scolpisce forme e tonalità applicandovi allo stesso tempo schemi cromatici, accostamenti, dicotomie e giochi visivi illusori. Tali formule a loro volta si sposano col concetto di vita ascetica, di pratica religiosa come portale verso il divino (la perfezione del cerchio si ripete svariate volte), un po’ come la ricerca del Boccadoro di HH indagava, tra le tante cose, la natura dell’uomo e l’armonia col proprio spirito – “la conoscenza va dimenticata” viene sentenziato ad un certo punto – (in questo senso – e in questo soltanto – l’induismo cui tra poco accenneremo non si distacca molto dall’idea di fede che concepì Hesse). Il protagonista, qui, aspira alla più intima interiorizzazione dei principi di Shiva, segue il cammino prestabilito con estrema serietà. Nello stesso tempo AD lo accompagna scandendo senza sosta brani chiave della letteratura vedica, incontri epici, così da rendere l’andamento dell’opera difficoltoso.
Ma l’edificazione del tempio ha altri connotati, primo su tutti quello legato all’idea di arte che l’autore stesso ha cercato di rendere, con modalità via via differenti, durante tutta la sua carriera. Essa infatti tende alla perfezione, è alla ricerca di un qualcosa che le sfugge, qualcosa di anonimo, un ideale, un volto, una causa prima. Gli sforzi profusi nell’arco di una vita, perseguendo detto ideale, sono il cammino dell’uomo-artigiano, rappresentano la fatica dell’artista (in questo caso il cineasta) nell’adempiere a tale, tacito precetto. Un discorso dunque che, più che religioso, trova una soluzione nella metafisica come interrogativo puro. ‘The Unknown Craftsman’ allora si pone al culmine di un intervento filosofico che trascende la realtà cinematografica e quella sensibile esistendo unicamente in quanto ricerca o meglio assenza.
Voto: ★★★★/★★★★★