Workingman’s Death

Workingman’s Death (2005) – Michael Glawogger / Austria

La morte del lavoratore. Un titolo forte, provocatorio, se vogliamo, che di per sé esprime disperazione. Un clima ben rispecchiato dai cinque capitoli in cui è divisa l’opera (sei, se si considera il finale) e in ognuna di queste circostanze il lavoro ricopre un ruolo centrale, estremamente nefasto: conduce alla morte (una morte che a volte perdura, la morte nella vita). Si lavora solo per sopravvivere, mai per vivere, e lo si fa nella coscienza di ciò (“Siamo nati nella sofferenza perché in questo Paese niente è come dovrebbe essere”); non sussiste alcuna propensione a ribellarsi, si convive con il fantasma di un sogno irrealizzabile, con la rassegnazione ad una schiavitù senza frontiere che ha preso il sopravvento su tutto il resto. Tutto il pensabile.

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La riflessione di Glawogger si appoggia palesemente ad una base geopolitica, e se da un lato ricorda parecchio i trascorsi dell’autore (vedasi il precedente ‘Megacities’) dall’altro apporta qualcosa di nuovo nel panorama documentaristico degli ultimi anni, si distacca molto, per esempio, dal documentario asiatico canonico – si pensi allo standard della New Wave cinese, dove ha luce solamente la relazione tra individuo e contesto. Qui, diversamente, vi è un forte legame tra i contesti stessi a prevalere, gli episodi si susseguono come fossero un proseguimento del precedente, e questo non solo perché accomunati da uno sfondo di povertà e disillusione (si tratta quasi sempre di locazioni del terzo mondo), più ancora per le connessioni logiche che tessono l’organismo vitale del film e per la coerenza direttiva che sposa la riflessione esposta. Qui, l’individuo riveste un ruolo irrimediabilmente passivo, pare non abbia possibilità di svincolarsi dalla propria condizione. Il lavoro costituisce l’inizio, il mentre e la fine di qualsiasi percorso, ad aggiungersi a tutto ciò, spesso e volentieri, è il pericolo della mansione da svolgere (il fuoco ardente con il quale si trovano in stretto contatto gli operai delle acciaierie piuttosto che i tunnel di 10 centimetri nelle miniere di carbone dove un minimo crollo, possibile in qualsiasi momento, può provocare la morte).

Si ragiona sul senso del lavoro, il suo valore ed il prezzo che si è costretti a pagare, la veste completamente deviata che ha assunto in quei luoghi ma non solo. Nel discorso del cineasta austriaco c’è molta più complessità ed altrettanta varianza all’interno dello stesso filo tematico. Un frammento del secondo episodio mostra un gruppo di turisti fotografare i lavoratori del posto, colti nello strazio della fatica che colma le loro giornate. L’uomo civilizzato fotografa l’uomo che non lo è, contempla il dislivello che lo separa da un suo simile: il costume, la tradizione e la cultura li portano a non riconoscersi l’un l’altro come appartenenti alla stessa razza, il fato ha determinato le due parti. L’uomo guarda con meraviglia a un altro uomo.

Dove la modernità e lo sviluppo industriale non hanno ancora messo le radici, la misera e la disperazione fanno da padroni. Il culto del lavoro è stato inculcato fin dall’infanzia, non conosce età, né alcun tipo di libertà, la visione della vita e della realtà sono del tutto distorte e non consentono la conduzione di una vita privata, riposo, svago. Il lavoro manuale spossa oltre i limiti del sopportabile, non esiste alcuna possibilità di sopravvivenza alternativa, si stenta a persistere nella propria attività, ma lo si fa, appunto perché non vi è scelta, perché il sogno deve sempre poter sussistere, perché, come afferma un lavoratore nigeriano: “Se esiste un’entità divina allora tutto sarà ripagato”.

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Voto: ★★★★/★★★★★

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