Persona

Persona (1966) – Ingmar Bergman / Svezia

L’eterno dualismo che accompagna ogni stimolo, pensiero o desiderio represso/inespresso, da un esistenzialismo interpretato in chiave psicanalitica a una libido perversa, celata dietro la maschera che dà latinamente nome all’opera stessa; il conflitto interiore comunicato da volti complementari l’un l’altro, diverse facce della stessa medaglia, diviene dunque il pretesto per rifarsi all’uomo non tanto filosoficamente parlando, intendendo quindi lo stesso come soggetto in contraddizione col proprio essere e col proprio divenire/esprimersi, quanto proprio nella sua incapacità di rappresentare e rappresentarsi, nella vita come nel teatro, confrontarsi o collocarsi in un qualsiasi spazio all’infuori di quello sfondo adiaforo (dal bianco e nero più o meno sfumato) che per unico ci viene presentato dall’autore. E quell’esprimersi, manifestato dalla contrapposizione tra mutismo e soliloquio, diviene sintomo primo di disagio, patologia stagnante, un do ut des mai ripagato e, anzi, insensibilmente sfruttato da Elisabeth alla prima occasione. Comunicazione che, in quanto presupposto collante, cardine di un’opera, viene in realtà disgregata e delirata (non più in funzione di, ma) per i personaggi. Svelandoli, lasciando che a dominare non sia la rappresentazione del contesto e dell’avvenimento – presupposto o meno tale – ma l’insieme di traumi e di conseguenti meccanismi freudianamente intesi che li portano a essere.

Nel fatidico rovinarsi, rattrappirsi e bruciare della pellicola, emblema del mezzo cinematografico, in quanto fallimentare tentativo di mediazione tra autore e spettatore, nel conficcarsi di un chiodo nel palmo di una mano. In tutta quella serie di atti che intendono quasi violentare l’occhio innestando fin da subito una sensazione di disturbo e di aggressivo, isterico porsi nei confronti dell’osservatore, coesiste un’euritmia innaturale, un disequilibrio-disagio che, a conti fatti, preannuncia solamente (in contemporanea ai titoli di testa) il nucleo intero dell’opera, la sua essenza. Qualcosa di evidente eppure così controversa, ravvisabile in ogni aspetto, ogni sfumatura del film, dal suo lato più cerebrale a quello più schivo, pretestuoso, come potrebbe essere l’entrata di Elisabeth in quello stato abulico dal quale non riuscirà mai a evadere. Allo stesso modo potrebbe esserlo altresì la presenza dell’infermiera Alma chiamata ad assisterla, cavillo funzionale a un’indagine sulla sessualità ma anche sul doppio, sull’assurdo camussiano, sulla maschera di nietzschiana memoria, sulla parola mai corrisposta (di radice potenzialmente religiosa, ricordando la precedente trilogia sul silenzio di Dio). Una presenza sospesa sul filo invisibile che separa realtà e inganno, una presenza che forse è assenza, ma non è questo che importa, bensì ciò che implica, ancora una volta il dualismo come ricorso ottimale per sostenere una riflessione quanto più possibile eterogenea e specchiare quel conflitto connaturato alla realtà delle cose, ma un dualismo insistente molto più che ne ‘Il settimo sigillo’, origine di un ginepraio colmo di grovigli che si intersecano senza mai scomporsi nella propria coerenza a sé stante.

Volti che si cercano, si perdono e fondono insieme, si crogiolano incerti l’uno nell’altro alla ricerca di un’individualità mancante, di un’unicità mai presente. Alma e Elisabeth, Elisabeth e Alma. Va ricercata sì una causa prima, o meglio, un fondamento logico, ma non tanto nell’evento in sé per sé, quanto proprio nelle radici psicologiche che lo determinano. C’è una maschera che specifica l’esistenza di un solo individuo e di due distinte personalità, un transfer ben evidente eppur mai del tutto svelato.  Il punto di non ritorno in questo caso viene incarnato nella figura di un uomo, onnipresente nell’immaginario, nei discorsi/monologhi tra le due protagoniste eppur mai fisicamente presente fino ad allora. A quel punto decade la fede nella realtà, nell’occhio, pervade al contrario lo scenario un’angoscia insopprimibile, la consapevolezza di assistere ad un dramma a specchi, che ci appartiene e ci coinvolge in prima persona in quanto inconsapevolmente presenti fin dall’inizio nelle vesti della giovane infermiera. Perché quest’uomo mi si accosta, mi avvicina, giura fedeltà ad uno spettro non più identificabile? È dunque vano sopprimere es o super io, rivelare le proprie colpe accusando tutti e se stessi nel tentativo di esimersi da ogni condanna, confessare sconfessandosi assieme, rendendo quindi universale il trauma rigettato dall’io, così tradito e liberato.

Dio, punto cruciale e convergente della poetica bergmaniana, origine e termine di uno studio perlomeno ventennale. Nascosto in un silenzio che è sua immagine, Egli proietta attraverso la sua assenza l’angoscia di autodeterminarsi, di porsi incondizionatamente, da qui il discorso kierkegaardiano che prevede inoltre la disperazione dell’io e la scelta come fattore scatenante, come illusione di un libero arbitrio in realtà guidato da un dolore vincolante e onnipresente. Lo stesso che erompe nella violenza per mezzo della parola, che nasce dall’impossibilità di comunicare e sentirsi in comunicazione con Dio. Un limbo che rappresenta e codifica l’esistenza inquadrandola nelle sembianze di un doppio scisso e in perenne conflitto, alla ricerca di una chiave mistificatrice, fittizia come l’illusione di quel bambino fuori dal reale che sfiora l’immagine di un volto amorfo, un desiderio impossibile.

Voto: ★★★★★/★★★★★

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