Dies Irae

Vredens dag (1943) – Carl Theodor Dreyer / Danimarca

Il maestro danese Carl Theodor Dreyer realizza con l’ingresso negli anni quaranta un’opera pretenziosa, un saggio antireligioso senza tempo che impone al suo pubblico una visione tanto audace per il periodo quanto di fatto visivamente unica. Il dramma storico si consuma e si confonde con quello religioso in una storia che denuncia e condanna senza attenuanti ogni forma di credenza e di potere.

Siamo nella Danimarca del 1600, in una piccola comunità di campagna, location spesso usata dall’autore. La vicenda narra dell’amore del figlio di un pastore per la sua matrigna. Tra loro però si interpone la forte ostilità del paese che accusa la matrigna stessa di stregoneria. Quando anche l’amante ne viene convinto la donna decide di confessarsi ingiustamente rea, tradita nell’animo e ormai arresa al suo destino.

Come già detto si possono ravvisare qui tutti i temi cari a Dreyer: innanzitutto la forte critica alla chiesa che, dopo il capolavoro ‘La Passione di Giovanna d’Arco’, torna qui altrettanto forte e netta. L’intero blocco ecclesiastico viene descritto attraverso i suoi personaggi come un gruppo di persone piene di vili risentimenti e facili pregiudizi, come di fatto in quell’epoca, il 1600, era. I buoni sentimenti iniziali verso la donna si tramutano presto in sospetto e odio per i suoi cari e le accuse rivoltele contro, anche a causa della colpevolezza della madre, morta prima di lei, finiscono per farla arrendere. Lo spettatore si ritrova fortemente scosso e coinvolto dagli avvenimenti e prova quindi immediata empatia verso la povera donna, fulcro del film e pietra dello scandalo per l’intera comunità.

La tecnica di Dreyer si ravvisa qui pienamente: la forte tematica, tipica dall’autore, gli permette l’uso di inquadrature lente ma di grande impatto emotivo attraverso gli atteggiamenti dei protagonisti e le loro pose statuarie e solenni, che rimarcano cosi facendo i loro stati emotivi. Più che nelle parole tutta la carica emozionale viene infatti confluita nel significato delle scene e nei gesti dei personaggi, caratteristica tipica del cinema muto, essendone Dreyer uno dei maggiori esponenti. Questo però non risulta per lui un difetto perchè, come già detto, riesce a sviluppare una tecnica narrativa talmente avanzata e personale da non risultare così noiosa quanto bensì magnetica e coinvolgente. Non a caso le sue opere non sono mai state tacciate come noiose o pedanti, ed è forse questo paradosso, cioè della lentezza del film in corrispondenza al grande interesse suscitato, a risultare come uno dei più grandi meriti del regista danese.

La sequenza dell’interrogatorio richiama alla mente l’analoga del precedente film ‘La Passione di Giovanna D’Arco’, da notare l’evoluzione di Dreyer che tende qui a lasciarsi alle spalle quei primi e primissimi piani alternati ravvisati in precedenza per dare al film sfumature tecniche più complesse in fatto di campi, luci e direzione registica. Ma DI non è importante solo per le tecniche impiegate: di fatto esso è anche un maestoso affresco psicologico e storico, che tende a mostrare una realtà cupa e drammatica purtroppo non stravolta.

Voto: ★★★★/★★★★★

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