The End of Time

The End of Time (2012) – Peter Mettler / Svizzera

Nella realtà non esiste il tempo. Le cose nascono, crescono, si dissolvono, e tutto questo viene etichettato come tempo: da tale nozione derivano poi passato, presente e futuro. Ma se il tempo fosse davvero solamente un’idea, una concezione, assimilata sotto forma di percezione (quest’ultima intesa come visione immediata dell’oggetto), allora tutto si assoggetterebbe al tempo, il tempo non esisterebbe, e tutto sarebbe tempo.

Nella sua globalità, l’opera rappresenta un’altra escursione dell’autore nelle profondità più remote della conoscenza; se però in ‘Gambling, Gods and LSD’ veniva esaminata l’interconnessione che legava individuo, luogo e momento d’appartenenza, qui Mettler si concentra principalmente su quest’ultimo punto, il tempo, visto sotto diversi profili per farne emergere altrettante prospettive di verità, malgrado la costante, ferma  consapevolezza che verità sul tempo non ne esistano.

Un’esplorazione quindi, come la definisce l’autore stesso, una ricerca, uno studio indirizzati a comprendere la natura del tempo, la sua influenza sullo spazio e tutto ciò che lo ricopre. E qui, come in tutte le analoghe operazioni precedenti, non si conosce ciò che si incontrerà, in questo particolar caso però, nemmeno ciò che si è, ed è proprio il seguente il quesito maggiore che Mettler pone attraverso l’opera. Dunque chi siamo? e qual è la nostra origine? qualora tentando disperatamente di definire un principio alla linea temporale, se ne uscisse desistenti, sconfitti, ne deriverebbe che il tempo determina la nostra esistenza e in un certo modo la implica; così, un attimo, un millimetro, un secolo, un chilometro perdono qualsiasi valore in una visione globale anti-antropocentrica, di conseguenza l’uomo precederebbe il concetto di tempo, giacché, come suggerisce una frase enunciata da uno studioso, “Il tempo significa che siamo”.

Il documentario assume fin da subito la forma di viaggio scientifico scoprendo così la propria natura fondamentalmente anarchica, indipendente da ogni cifra narrativa, da ogni linguaggio predefinito e supportata unicamente da brevi monologhi e sporadiche didascalie rivelate tramite una voce fuori campo che accompagna l’immagine attraversandola con riflessioni a sé stanti senza mai rivelarne la semantica. Dunque Mettler anche qui non usufruisce di alcuna grammatica se non quella appunto delle immagini che, assieme alla voce fuoricampo, crea l’atmosfera straordinariamente evocativa fornita proprio dall’armonia di tale parallelismo; ecco che la mancanza di orientamento, l’assenza quindi di una struttura nell’opera agisce in modo tale da generare trasporto creando un legame effettivo tra opera e spettatore: lande desertiche, paesaggi che alternano aridità e floridezza mantenendo sempre fascino, magma in movimento, lento ma perenne, corpi celesti che obbligano alla muta contemplazione, visioni esteticamente uniche che coinvolgono tanto da condurre ad una reale estasi dei sensi che alleggerisce il peso dell’opera tenendone sempre costante il ritmo e consentendo così l’implicazione in quell’abisso di pensieri e meditazioni che il film in sé sostiene.

Per dare vita a quest’indagine il carattere del tempo viene ricercato negli ambiti più remoti del pianeta; dai quartieri bassi di Detroit, che nella loro desolazione sembrano essere stati risucchiati dal corso degli eventi, ai riti funebri induisti e il loro presunto legame trascendentale nei confronti della dimensione terrena. Si attraversa anche il paesaggio hawaiano dove viene focalizzata la presenza di masse vulcaniche e prima ancora si viene introdotti in un complesso svizzero di acceleratori di particelle volti a conoscere l’esistenza di altre dimensioni fisiche. È palese l’audacia dell’autore nel voler sviscerare gli enigmi che da sempre tormentano l’uomo ponendosi come enormi interrogativi nella sua esistenza, ma lo è altrettanto l’umiltà con la quale viene presa in mano la totalità del discorso in tutte le sue applicazioni. Al termine di quest’esperienza, infatti, ciò che rimane ulteriormente è la coscienza del limite, la consapevolezza di sostare di fronte a delle barriere invalicabili. La grande lezione di Mettler perciò è questa: per quanto vi siano questioni inaccessibili all’uomo, è necessario interrogarsi sulla loro impenetrabilità; riportandosi su questa specificità dunque non è importante capire il carattere del tempo, la sua origine, la sua discendenza, è però fondamentale ricercarne veridicità, scandagliarne la natura. Un lavoro necessario, quello del documentarista svizzero, collocato un’altra volta ai confini dello scibile umano, dove non esistono certezze né verità, solo l’aspirazione a potersi dare una giustificazione.

Voto: ★★★★/★★★★★

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