Canzoni dal secondo piano

Sånger från andra våningen (2000) – Roy Andersson / Svezia

Bisogna senz’altro ammettere quantomeno la pregevolezza dell’intenso e poetico lavoro svolto sull’uomo contemporaneo dall’autore svedese nel corso della sua lunga carriera. Andersson infatti, soprattutto con questo primo capitolo di apertura della sua trilogia interamente dedicata a quanto appena affermato (continuata in seguito con ‘You, the living’ e ‘Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza’), palesa con estrema ferocia narrativa e con una grandissima coscienza sociale, il suo lodabile intento di rivoluzionare letteralmente il Cinema attraverso la messa in pratica di una narrazione schietta, diretta ma non priva di un potenziale quasi onirico capace di destabilizzare e allo stesso tempio commuovere fortemente.

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Le piccole-grandi tragedie personali e umane di vari personaggi si incrociano tra loro sullo sfondo di una metropoli decadente e ormai sull’orlo dell’autodistruzione. Tra le tante storie vediamo prevalere quella di un uomo che, in difficoltà economiche, decide di dar fuoco al proprio negozio per ricavarne il compenso dall’assicurazione, finendo però per vagare solitario vendendo inutilmente crocifissi. Il suo volto, segnato dall’ingiustizia di un mondo di macerie, è l’emblema di una vita, quella dipinta dal regista, priva di speranza ma spesso anche priva di senso, dove a regnare sono semplicemente follia e disperazione.

Una depressione, quella illustrata e messa in atto, che pervade e in un certo senso caratterizza tutte le opere del regista scandinavo. Se però successivamente questa verrà smitizzata e subordinata ad una ben più larga vena comica, qui tutto si fa lucidamente e nitidamente drammatico, quasi penoso nel suo lento convergere verso una sconfitta inevitabilmente fatale. Si è di fronte ad un’umanità che non lascia adito a dubbie interpretazioni o a contrastate prese di posizione, di un realismo letteralmente coinvolgente ma soprattutto mai eccessivamente preso sul serio. Nonostante ciò Andersson qui non rinuncia alla sua attitudine tragicomica, dipingendo affreschi di straziante umanità che risuonano nell’animo come rintocchi di campana, come ultimatum di un mondo ormai disperso e in estinzione: quasi un’apocalisse.

La vendita, tipico stratagemma onnipresente nell’immaginario dell’autore, simbolizza, tenendo conto di quanto già asserito, quasi come un’opaca allegoria biblica, come se ogni individuo tentasse con ogni mezzo e con tutte le proprie forze di mendicare una decenza, una rispettabilità, una sopravvivenza, che non gli sono dovute e che non gli toccheranno mai in virtù del suo stesso status di ultimo anello di una scala sociale e naturale. In tutta la sua sembianza ridicolmente vera, ogni affresco, ogni sipario alzato da Andersson, suscita al contempo commozione e ilarità. Caricature di uomini, sembianze contraffatte e grottescamente sottolineate da un aspetto, una portanza e un comportamento fuori dal comune. Non è facile “etichettare” il Cinema del regista svedese così come non è facile andarci d’accordo, trovarsi in totale sintonia con esso, e tutto ciò probabilmente proprio a causa della sua singolare mentalità, della personalissima, rivoluzionante capacità di intendere l’uomo e di adattarlo su schermo. Potrebbe non sembrare realistico ma al contrario lo è più di molto altro Cinema indicato come tale. Il cineasta in causa è indubbiamente un maestro innovativo e a suo modo geniale, nonostante tutto e nonostante i suoi meriti e i suoi intenti sociali superino di gran lunga la sua pura e semplice capacità e spontaneità di fronte alla cinepresa.

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Voto: ★★★/★★★★★

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