Mandala

Mandala (1981) – Im Kwon-taek / Corea del Sud

Due monaci buddisti in pellegrinaggio si incontrano casualmente. Due percorsi spirituali differenti, due personalità differenti, il primo ciecamente dedito ai precetti della dottrina, il secondo un girovago scomunicato la cui fede si risolve nell’interpretazione razionale dell’universo, penitenza ma anche edonismo, consapevolezza interiore atta a smentire i paradossi ammessi dal culto. Eppure a legarli indissolubilmente è la stessa, cauta esegesi dei Canoni religiosi, incontrarsi cioè in quanto di più ostico suggerisca una fede, ovvero l’intima congiunzione tra l’uomo credente e quello non praticante. Proprio nel tentativo di far convivere queste due realtà, Po-beun, il primo dei due, conoscerà il principio della crisi, unica speranza per passarvi oltre la messa in discussione di un intera filosofia di vita, la stessa che lo portò anni addietro ad allontanarsi dagli affetti piegandolo ciecamente alla preghiera.

La crisi, così come la figura stessa di Ji-san (traducibile come ‘il saggio della montagna’), d’altronde non viene considerata con accezione negativa, anzi. Kwon-taek non pone un punto di vista da cui osservare l’immaginaria diatriba, al contrario ragiona assieme allo spettatore sull’esito delle osservazioni, immaginando un’ipotetica verità laddove non vi sono verità da comprendere. Ji-san è un uomo del peccato, che infrange – con solo apparente leggerezza – i principali comandamenti buddisti. Dedito all’alcol e alle donne, non si pone al di sopra della giustizia divina, si piega al suo giudizio amministrando il rimanente lasso di tempo a disposizione con raziocinio: fuori posto per un monaco, decisamente confacente ad un pensatore, un filosofo. Il confine-legame tra filosofia e religione infatti viene più volte sottolineato con lo scopo di assurgere ad un livello successivo di consapevolezza, laddove l’operato umano valichi i confini dettati dall’una e dall’altra disciplina. Questo e null’altro in conclusione incarna la figura di Ji-san.

Tale livello di consapevolezza, o come meglio specificato nel corso dell’opera, ‘di illuminazione’, entrambi i protagonisti comprendono vada ricercato non più tra le mura consacrate dei templi come di luoghi di raccoglimento e preghiera, quanto proprio tra le persone, immersi nel mondo, vivendone le leggi e i valori, mettendosi alla prova dunque. L’opera in questo senso vive di una linearità che ben si confà a tale ricerca, una narrazione che sottostà agli stati d’animo tumultuosi dei personaggi confondendosi con le ciclicità della natura. Vuoi le abbondanti nevicate – che del resto pare predominino rivaleggiando in quanto ad attenzione – vuoi queste lande desolate pronte ad estendersi a perdita d’occhio, è innegabile che il vero protagonista dell’opera sia il contrasto provocato da tali sequenze.

È sotto il profilo estetico che ‘Mandala’ di conseguenza rivela il proprio valore, vantando una fotografia che fa della propria ruvida opacità un imprescindibile punto di forza: i paesaggi, come già sottolineato, contribuiscono ad incorniciare e riempire inquadrature ben precise, viali sterrati e protagonisti in viaggio, immersi in dissertazioni sulla natura più intima del loro presente. Lo stile dell’autore sappiamo convivere armoniosamente con le tonalità cromatiche, trarre da queste la propria forza sfruttando intelligentemente le proprietà intrinseche dei diversi colori per asservirle al cuore dell’opera, ai sentimenti che animano i protagonisti nel loro percorso di ricerca. Percorso che trova una conclusione di grandissimo effetto, degna di un film che brilla all’interno della filmografia del regista coreano.

Voto: ★★★★/★★★★★

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