Interviste #5 – Rouzbeh Rashidi

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rouzbeh rashidi

Rouzbeh Rashidi (Tehran, 1980), regista indipendente iraniano naturalizzato irlandese. La sua carriera ha inizio nel 2000 e ad oggi conta più di 274 opere tra cortometraggi e lungometraggi, sempre realizzati con minime risorse finanziarie. Sempre nel 2000 fonda la Experimental Film Society (EFS), un collettivo di registi uniti dal fine comune di ricercare nell’esperienza visiva un nuovo approccio orientativo, usando le loro stesse parole: “adottare un approccio esplorativo, spesso poetico, alla materia e risaltare gli stati d’animo, le atmosfere, i ritmi visivi e l’interazione sensoriale tra suono e immagine” (punti ampiamente illustrati nel loro libro ‘Luminous Void: Experimental Film Society Documents’). Parimenti ai suoi colleghi, seppur con un approccio più radicale, Rashidi trasmette un concetto di cinema strettamente ancorato al sovvertimento della struttura. Il suo approccio si evolve col tempo in visioni sempre più cupe e profonde dell’uomo, raggiungendo una straordinaria padronanza del mezzo cinematografico. Il suo ultimo progetto, ‘Phantom Islands’, ha avuto la sua prima mondiale quest’anno al Dublin International Film Festival.


Cinepaxy: Partendo dalle origini della sua formazione professionale, sarebbe interessante capire com’è nata l’EFS. Come riassumerebbe gli obiettivi e principi sui quali si basa?

Rouzbeh Rashidi: L’EFS è nata sulla basa della mia volontà di creare una società, una piattaforma e un’entità che producesse lavori miei e di registi affini. Ho tentato di dar vita a un nuovo sistema e dimostrare che per fare cinema non c’è bisogno di essere parte in organizzazioni già formate, certo oggi quest’idea appare datata ma allora – fine anni ’90/inizio anni ’00 – era molto entusiasmante, specialmente in un ambiente come quello iraniano.

CP: Tutti i suoi lavori sono stati realizzati con budget molto ristretti. Ritiene che la limitatezza di risorse in questo senso influenzi inevitabilmente la qualità dell’opera?

RR: Finora ho realizzato 34 lungometraggi e 240 cortometraggi (200 dei quali fanno parte del progetto attualmente in corso ‘Homo Sapiens Project’). Di questi, solo quattro lungometraggi hanno avuto a disposizione fondi e sovvenzioni. Tutto ciò che ho realizzato senza budget lo considero parte cruciale, vitale del mio percorso per diventare regista. Sono gli appunti e i risultati scientifici del Barone Victor von Frankenstein. Le ricerche che fece nel suo laboratorio lo portarono a creare il mostro. È un paragone divertente, forse per alcuni ironico, ma non per me. Credo di aver raggiunto il limite nel cinema indipendente e di non potermi spingere oltre, né tantomeno ho intenzione di dedicargli altro tempo. Quei film sono fondamentali per me, grazie ad essi ho sviluppato i miei mezzi e le mie abilità. Mi hanno formato, ora sono pronto ad affrontare sfide più ambiziose in una scala più significativa con fondi maggiori e una squadra di attori e tecnici professionisti. Penso che tutti questi aspetti rappresentino una fase. Indipendente, sperimentale, underground, commerciale e così via. Sono tutte delle sfide. In fin dei conti sono modi diversi di fare la stessa cosa. Dammi una videocamera analogica senza finanziamenti e ci girerò dei film. Dammi 100 milioni di dollari e ci girerò ancora dei film. So solo che non scenderò mai a compromessi.

CP: Come lei stesso afferma, i suoi lavori si confrontano sempre con la storia del cinema, come a volersi dare in una forma di rispetto nei confronti di quello che è stato. Dall’altra parte, però, c’è una rottura, un rifiuto degli schemi; rifiuto che impossibilita – ritornando a ciò che diceva – il compromesso, ciò che potrebbe avvicinarla al circuito festivaliero, così come a quello produttivo. Come si vede rispetto a queste due realtà?

RR: A questa domanda posso rispondere in due parti. In primo luogo devo dire che anche se volessi cambiare, non ne sarei mentalmente capace. Conosco solo un modo di fare Cinema ed è quello che adopero incessantemente dal 2000. La storia del cinema e il cinema come mezzo di comunicazione per me sono tutto. Non credo che esista un cinema nazionale o internazionale; credo sia sempre esistito un cinema continentale al quale appartengono tutti i film. Pertanto, l’unico modo in cui ho sempre pensato si possa realizzare un film è tramite un ritorno alle origini, cercando di capire cosa è cambiato da allora sino ad oggi, e da qui realizzare opere pensando al futuro – ma anch’esse, non appena realizzate, faranno parte prima del presente e poi del passato.

In secondo luogo, sì, solamente i presuntuosi non cambiano. Sono radicale ma non dogmatico, almeno per come mi vedo, ma mi posso sbagliare. Con ‘Phantom Island’ credo di aver forse raggiunto un punto in cui il film diviene tanto accessibile da poter far parte del sistema commerciale, per quanto vi conservi la radicalità delle mie idee su come vada organizzato un film. Mi ci sono voluti anni per elaborare questa formula e spero, d’ora in avanti, di poter raggiungere un pubblico più vasto, distribuzioni maggiori e sfide più grandi. Il Cinema è qualcosa di completamente magico, quasi un’evocazione, un incantesimo. Qualcosa in cui mi consegno costantemente, dinnanzi al quale posso reagire solamente in base alle mie capacità e conoscenze. Vedremo che accadrà!

CP: Riguardo a questa formula, in quanto estremamente audace, essa sottintende uno sforzo importante da parte di chi intende avvicinarsi alla sua opera, sforzo che lo spettatore di oggi non è disposto a sostenere. Dall’altra parte dello schermo ci si potrebbe sentire alienati, lo spettatore medio non è avvezzo alla visione sperimentale. Non crede di sacrificare troppo il pubblico?

RR: Ci crediate o no, sono totalmente contrario all’elitarismo. Non farò mai film per una particolare fetta di pubblico. Difatti, tra le cose che più disprezzo dell’ambito sperimentale c’è la convinzione che determinati film appartengano ad un contesto specifico. Non ho mai condiviso questo tipo di snobismo. Quando giro un film lo faccio letteralmente per chiunque sulla Terra, a prescindere da chi sia e dove viva. Ho progettato i miei lavori come entità autonome che divorassero lo spettatore oppure venissero assimilate a pezzi. Non vi è territorio neutrale, né possibilità di rimanere indifferenti; di nuovo, almeno questa è l’intenzione. Quanto io riesca nell’impresa è un altro affare, chiaramente. Credo anche che una volta stabilite le premesse, il pubblico riuscirebbe facilmente a entrare in contatto con questo cinema. Mi rifiuto di credere che il pubblico sia inesperto e non riesca a comprendere un cinema più impegnativo. Non è così. Vi faccio un esempio: ho portato un mio amico, che non ha grandi confidenze con il cinema, con me a vedere il mio film ‘Ten Years In The Sun’ al cinema. Una volta conclusa la visione mi ha detto che sono stato torturato e ancora oggi si lamenta del film. Lo descrive come una sorta di incubo avuto la notte prima, ogni volta con una diversa versione degli eventi. A volte, quando beviamo tra amici, mi provoca raccontando a tutti della sua esperienza. Questo significa che il film ha lavorato internamente, dentro di lui. Quindi penso che il cinema sia solo una questione di predisposizione mentale del pubblico alla radioattività del film e possa cambiare per sempre. I film necessitano di venire continuamente proiettati, questa è la chiave. Ecco cosa intendo fare con l’EFS, creare un sistema che produca e mostri film regolarmente, di continuo.

Ten Years In The Sun (2015)

ten years in the sun - rouzbeh rashidi

CP: Dunque, come vorrebbe che un potenziale spettatore pensasse a una sua opera? Come a qualcosa sui cui riflettere, o più come un’esperienza viscerale?

RR: Domanda complessa. Ad essere onesti non lo so. Forse non lo saprò mai. Perché è impossibile conoscere il pubblico. C’è un importante elemento fantascientifico in tutti i miei film, che siano proiezioni nel passato o nel futuro, si parla sempre del processo di elaborazione delle immagini e di come queste possano rivelarsi sogni o incubi. Pertanto, la cosa migliore, l’unica, che posso fare è guardare al mio pubblico come a degli alieni, forme di vita extraterrestri. Realizzo i miei film su questa base. Loro possono sopravvivere sia sulla Terra che sullo spazio al di fuori. Per me, logica e ragione sono sempre stati concetti sopravvalutati. Mi interessano più la sopravvivenza e la collaborazione. Guardo al cinema come ad una catastrofe: funghi atomici, radiazioni e caos. C’è sempre stato il silenzio prima del grande evento del film (una grande piazza dove poter raccogliere materiale); poi arriva l’esplosione, che in piccola parte ha avuto luogo nei miei film  (forse nella sceneggiatura, forse nella narrazione?); infine il risultato, immagini e suoni dell’accaduto e per quanto tempo queste forze influenzano la visione (la parte più onerosa del mio lavoro – il montaggio). Il cinema continuerà ad invadere il pubblico, bisogna solamente continuare a filmare e proiettare i film senza esitazione.

CP: Ecco, ma da dove proviene la necessità di adottare un registro sperimentale?

RR: Non so dire cosa sia sperimentale e cosa non lo sia. Non ho davvero modo di distinguere ciò che faccio io da ciò che fa il cinema commerciale. Penso siano entrambi cinema. Solo cinema. Non ho mai pensato di diventare un autore sperimentale o alternativo. Volevo solo essere un regista ed esprimere il mio amore per il cinema, condividere gran parte delle mie esperienze personali. Purtroppo non è apparso così. Ho dovuto scegliere un’etichetta e una categoria per sopravvivere. In ogni caso, quasi tutte le mie decisioni, i miei pensieri, le mie attitudini e i miei film non sono di carattere intellettuale. Sono profondamente empirici e pratici. Sono una persona pragmatica al 100%. Non do alcuna importanza al sistema o agli imperativi politici. Le tendenze socio-politiche del momento cambiano troppo velocemente, le nuove al contrario emergono in fretta; sono come notiziari flash, non ho affinità con loro. Vivo nel mio tempo, vedo ed esperimento ciò che accade intorno a me e, senza dubbio, lo ripropongo indirettamente nei miei film. Questo dovrebbe bastare. Non guardo al cinema come ad uno strumento o ad un mezzo di informazione. Non mi interessano opere testuali, che non portano rispetto per immagini e suoni. I miei obiettivi principali sono di fare film, aiutare i miei colleghi a poterne realizzare ed eventualmente farli proiettare in tutto il mondo. Infine, a quel punto mi farò da parte per osservare. Quando non ci sarò più non avrò di che preoccuparmi, i film continueranno il loro viaggio.

CP: A tal proposito, Snow disse “I do not have a system, I am a system.” In un’ottica radicalmente sperimentale ricondursi ad una struttura significa compromettersi, pregiudicare l’intero lavoro; così si spiega l’urgenza di un linguaggio puro e in quanto tale parte di un’evoluzione di pensiero che è prima di tutto affermazione politica. Ma nel momento in cui lei afferma di non sentire il bisogno di riferimenti politici né senso di appartenenza al mondo sperimentale, cosa rappresenta la sperimentazione se non il riappropriarsi di un’identità per superare la crisi dell’immagine?

RR: Innanzitutto c’è da dire che ogni azione è potenzialmente politica, che essa venga attuata più o meno consapevolmente. È il motivo per cui ritengo che l’atto cinematografico sia atrocemente politico e non solamente un argomento, di protesta, o sfruttamento del dolore altrui.

Per quanto riguarda il cinema in sé, e quello che faccio in quanto regista, mi sento molto vicino al ‘Cinéma du Diable’ di Jean Epstein, all’uso delle immagini di Marguerite Duras atto ad evocare un’infinità di interpretazioni e all’intera estetica dell’horror e della fantascienza, dei B-movie e del cinema erotico. Aggiungi a tutto ciò l’interpretazione del mezzo e le possibilità della fotografia, del montaggio e del sonoro. Il cinema è un luogo dove tutto è possibile, dove l’immaginazione può creare universi visionari. Credo che sia stata indagata solo una minima parte di quello che realmente è il cinema. La domanda ‘cos’è il cinema?’ poi, è ciò ch mi spinge a fare film. Può essere sfruttato per raccontare storie, ma questa è l’unica forma conosciuta dalla maggior parte di spettatori, non mi interessa. Come disse Jonas Mekas, più del 90% delle persone non ama l’opera, ama la storia. È la verità. Sono come uno scienziato: lavoro nel mio laboratorio cinematografico e catalogo le mie scoperte. Per me è molto stimolante, perché credo che il percorso malinconico e sadomasochista intrinseco al comportamento autodistruttivo, a noi proprio in quanto esseri umani, continui a ripetersi e rigenerarsi. Per poter sopravvivere sgretoliamo i nostri rapporti, le amicizie ma anche le nostre intere vite in cenere, polvere e rovina. Questa perdita la concretizziamo nel cinema, il cui scopo è promuoverne la metamorfosi. Ciò elabora, ed è permeato, dai nostri più intimi detriti, ci permette di considerarci alieni neonati vaganti per la Terra: siamo noi e allo stesso tempo non lo siamo. È una riflessione tragica sul nostro passato e un narratore muto del nostro futuro. È un fenomeno che ci divora l’esistenza nel presente. Abbiamo creato il cinema semplicemente per venerare l’ologramma di ciò che abbiamo distrutto. Rovine di un tempo realizzate con strumenti del Kino¹.

CP: Il Cinema per rievocare il passato. Ma come riflettere sul presente? Come vede il ruolo dell’autore in questo senso?

RR: Ci si ricorda del passato finchè non si commette il crimine di guardarlo. Una volta catapultati in questo stato, tale diventa il presente, è una mutazione, una gassoso brulicare di idee e sensazioni, qualcosa di straordinario. La domanda sul ruolo dell’autore risponde perfettamente al motivo e alle modalità del mio far Cinema. Il giorno che sarò in grado di rispondere a questa domanda smetterò immediatamente di far film per guardarli solamente – il che è in egual modo produttivo, sorprendente e gratificante. Il mistero, l’arcano la stranezza, questo è il Cinema per me. Ho sempre fatto film per cercare risposte e mai per fornirne – sempre che esistano cose come risposte, ovviamente. Tuttavia, penso che tali concetti siano già presenti nel Cinema muto, sepolti da qualche parte tra il 1895 e il 1927.

CP: Molto eloquente. Poco fa parlava delle varie tendenze autodistruttive dell’uomo, allora quanto lei sottolinea nelle condotte dei soggetti mostrati (spesso idiosincrasie, comportamenti cronici sintomatici di tensioni e problematiche latenti) è frutto di una propensione al grottesco o è lo specchio del modo in cui lei vede realmente l’uomo? Penso per esempio a ‘He’ e ‘Tenebrous & Ill-lighted mortals’ e a come mostravano quest’ultimo.

RR: C’è forse differenza? Forse. Forse no. Alla fine, il Cinema produce immagini e suoni. Abbiamo tutti punti di vista personali, ideologie ed impegni, maturiamo nel corso della vita una grande quantità di esperienze, così è normale che, decidendo di esprimersi attraverso un mezzo, in questo caso quello cinematografico, ogni nostro trascorso vi si incanali: è qualcosa che non si può controllare. Nella maggior parte delle interviste che ho rilasciato, ho sempre parlato delle tecniche, del mestiere e delle specifiche del cinema oltre alla storia dello stesso. Mi sono volutamente astenuto dal trattare condizioni proprie dell’uomo o tematiche prettamente filosofiche. Adesso, se devo essere onesto, credo che gran parte della gente soffra, e con questo non intendo necessariamente finanziariamente o in quanto a repressioni politiche e sociali: quest’angoscia è ben più profonda e radicata. Lo vedo con la mia famiglia, con amici e conoscenti. Questa perlomeno è la percezione che io ho ricavato dai luoghi e dalle persone che ho avuto modo di incrociare nel corso degli anni. Soffrono, e questa sofferenza viene sopportata difficilmente. Certo, ho queste sensazioni nei miei film, e ciò li rende amari, stimolanti, ma sempre personali e sperimentati prima che meditati. Il resto è fuori dal mio controllo.

CP: Se è vero che i film provengono dalle sensazioni, è vero anche l’opposto. Ovvero, attraverso il cinema è possibile rispondere al dolore di cui parlava…

RR: Senza dubbio! Come disse Raúl Ruiz – ogni volta che guardiamo un film noi in realtà ne stiamo guardando due: quello corrente e quello che ci guarda. Il cinema è come uno specchio senza fine. Due specchi paralleli che creano una serie di riflessi sempre più ridotti, che a loro volta finiscono per scomparire in distanze infinitesimali. Non potrai mai appurare dove risiedono verità o menzogna o quando si parla di finzione e quando di realtà; dove finisce il cinema e dove comincia il regista. Probabilmente potrai solo arrenderti alle sue illusioni ottiche.

CP: Il discorso su realtà e finzione rimanda immediatamente a ‘Trailers’, dove questo scontro viene trasposto all’interno del contesto cinematografico. Per noi, il film segna un punto di arrivo nella sua carriera. Cinema che non cessa mai di riflettere sulla propria posizione. Cos’è il meta-cinema per lei? E quale pensa sia il suo potenziale espressivo?

RR: ‘Trailers’ è un film per me particolarmente significativo. Mi ha consumato fisicamente ed emotivamente. Speravo che venisse accolto meglio ma in qualche modo fu rifiutato da quasi tutti i festival ai quali lo inoltrai. È stata un’esperienza stimolante. In ogni caso, dopo ‘Trailers’ non sono più stato lo stesso regista. Mi ha davvero cambiato, definitivamente. Ora sto lavorando per realizzare film sullo stampo di ‘Phantom Islands’, un film quest’ultimo che in qualche modo media tra ‘Trailers’ e i mie primi lavori, ma anche qualcosa di nuovo, di più accessibile, che mi permette di raggiungere più persone. Ciascun film rappresenta per me frustrazione e grandi responsabilità, soprattutto quando non viene mostrato adeguatamente o addirittura ignorato. Sono un regista prolifico, faccio film per preservarmi, mantenermi calmo e sano, la ritengo in un certo senso un’attività terapeutica. Per quanto riguarda il meta-cinema ed il suo potenziale espressivo, preferisco tralasciare questa domanda, almeno per adesso. Secondo me, una volta che riconosci i tuoi obiettivi rischi di raggiungerli troppo in fretta per poi frenarti, smettere di sperimentare. Preferisco oscillare tra lo scetticismo e il disordine, in questo modo posso sempre spingermi oltre verso traguardi più alti.

Trailers (2016)




¹ Il più alto livello artistico in ambito cinematografico.

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