El mar la mar (2017) – Joshua Bonnetta, J.P. Sniadecki / USA
Un documento di rara fattura, quello di Bonnetta e Sniadecki, un’opera per certi versi criptica che, piuttosto che narrare, preferisce cedere il passo alle immagini mostrando; una realtà, un dramma sociale, un paesaggio, sta allo spettatore coglierne i segnali, ricomporre il puzzle abilmente orchestrato dagli autori prediligendo un’interpretazione all’altra o, magari, ammettendole tutte quante. Di conseguenza, le impressioni avvertite a fine visione sono varie, i più disparati fenomeni si susseguono senza un necessario nesso logico. Tutto quanto osservato non è che un’eco, il lamento lento e fragoroso di un paesaggio ostile e abbandonato, distese desertiche aride ed impervie, quasi del tutto disabitate, logorate dall’arsura diurna. Ecco allora che la notte diviene lo scenario ideale, tanto per ogni specie animale quanto per ogni tipo di individuo.
Ci troviamo nel Deserto di Sonora, in particolare nel tratto che sancisce il confine tra Messico e Stati Uniti. La realtà che bene o male vige incontrastata in questi luoghi è infatti quella dell’immigrazione. Gli autori ce la accennano spargendo indizi ma senza per questo soffermarvisi. Parimenti a quanto detto, seppur nel suo innegabile fascino, appare un panorama avverso e desolato, che racconta tante storie quante sono le tracce che l’umanità ha lasciato dietro i propri passi. Unendo lo straordinario incanto di simili luoghi al racconto che mano a mano voci, immagini e suoni ci raccontano, otteniamo ‘El mar la mar’, un viaggio itinerante che, in fin dei conti, smentisce ogni possibile interpretazione lasciando impressi nella mente quei luoghi anonimi che, grazie a JB e JPS, tali non sono più.
Con uno stile che di documentaristico conserva probabilmente soltanto la classificazione di genere, l’opera dimostra altresì un impianto tipicamente sperimentale, che si confronta con lo studio dei fenomeni naturali di autori come Benning e Hutton teorizzandone al contempo un carattere meno statico ed empatico. I ritmi difatti sono volutamente meno distesi seppur decisamente non frenetici (anzi). Volendo proseguire in un immaginario gioco di confronti, si nota piuttosto una tendenza al racconto tipica del Cinema di Ben Rivers; l’ambiente come somma di influssi, decisivo nella caratterizzazione della vicenda che ne fa da soggetto ma mai del tutto protagonista. Oltre a ciò, l’uomo viene ad aggiungersi definendo un nuovo rapporto con la natura. I pochi abitanti delle zone qui in oggetto sono colti nella loro spontaneità, fanno parte di un disegno superiore che ne vuole cogliere non l’umanità ma bensì la funzionalità: anziani agricoltori, immigrati in fuga e guardie di frontiera. A quanto pare, quella che a prima vista può apparire come una caotica successione di suggestioni visive e riprese senza alcun fine preciso, si dimostra essere un’accurata selezione di materiale filmico che mira alla definizione meticolosa di una realtà (a trecentosessanta gradi).
L’attualità del tema trattato si scontra, infine, con l’altrettanta attualità di immagini vive, presenti. L’aspetto estetico sbalordisce per l’intraprendenza quanto per la maestosità e la coerenza. Sequenze buie, notturne si succedono mentre racconti di umiliati e offesi scandiscono le proprie storie, bagliori nitidi ed infuocati disegnano nel frattempo coreografie sui promontori. Poco prima, alle loro spalle, gli ultimi, accecanti bagliori del sole in tramonto. Una storia corale che, tra detto e non detto, invita lo spettatore ad una comprensione desueta, che è altro rispetto a quella del dramma osservato e ripreso in diretta (elemento prevedibile che qui non avviene mai), più simile invece a quella di un dolore forse più distante nell’immaginario ma altrettanto vicino nella percezione.
Voto: ★★★★/★★★★★