Risvolti #4 – Japanese New Wave / Parte 1

Di ascendente palesemente francofono, il movimento di cui oggetto si muove dai primissimi anni sessanta (seppur già allora con discreti precursori) col preciso intento di rompere ogni legame col Cinema suo antecedente, guardando alle idee del gruppo francese ma senza seguirne le dinamiche pratiche. Questo viene espresso principalmente attraverso il sovvertimento dei meccanismi e delle tecniche in uso, l’utilizzo cioè di un linguaggio cinematografico rivoluzionario, sperimentale e in questo senso acuto soprattutto nel veicolare efficacemente, attraverso elementi come sesso e violenza (fino a quel momento tabù), realtà sociali di infimo grado (veri e propri bassifondi). Produzioni indipendenti di autori che colgono così la necessità di esprimere rancori ed insoddisfazioni legati al momento politico piuttosto che a drammi più radicati come miseria e criminalità. La forma acquista con gli anni sempre più valore e, con l’affermarsi sempre più netto di tali pellicole, nascono film culto, sagaci nel saper coniugare efficacemente uno stile visionario ad un costrutto originale e in un certo senso accattivante. Segue l’analisi di opere chiave relative ai principali esponenti della corrente.

ÔSHIMA, NAGISA – NOTTE E NEBBIA IN GIAPPONE (1960)

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Ritenuto il più eclettico, il più valido nonché probabilmente il più celebre tra gli esponenti del suo periodo, Oshima ha provato fin dai suoi primissimi lavori a dare un volto alla sua gente, cercando di interpretarne i disagi, gli stimoli, tutti quei codici di matrice socio-politica che in qualche modo agivano sulla mentalità comune determinandone lo scenario collettivo. Se quanto detto è vero allora NENIG è, oltre al miglior prodotto del regista, anche il più significativo, il più emblematico della sua carriera. Le vicende di un gruppo di ex commilitoni in lotta contro l’approvazione del trattato di sicurezza tra Giappone e USA in questo caso affiorano alla memoria in un incontro degli stessi svariati anni dopo. Si sentono traditi, in qualche modo abbandonati, gli ideali da loro tanto strenuamente difesi sono svaniti o, a parer loro, non più ciecamente perorati. L’ira per l’altrui indifferenza o ipocrisia (in questo caso la coppia di novelli sposi) è anche un po’ egoista, ma viene attribuita principalmente a quella di uno stato, quello nipponico, sempre più disposto a cedere la propria unicità e indipendenza, a sfuggire ad una politica isolazionista tanto a lungo mantenuta trattando con uno stato dichiaratamente nemico. Stile sobrio, asciutto e diretto come nella gran parte dei casi, registicamente parlando Oshima affronta l’opera in causa con estrema onestà, intessendo situazioni e dialoghi il più possibile realistici, forte di un cast eccezionale e lasciando in ultimo che il risultato stesso parli da sé, e così accade: l’impatto emotivo è di grande effetto, il film una pietra miliare del Cinema Giapponese.

IMAMURA, SHÔHEI- PORCI, GEISHE E MARINAI (1966)

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Con ‘Porci, geishe e marinai’ Imamura porta il proprio eclettismo a compimento riuscendo a dimostrare di saper brillantemente alternare tanto vicende impregnate di fiabesco quanto spaccati storici o addirittura documentari. Siamo infatti in Giappone, in particolare quello dei primi anni sessanta, vessato dall’influenza statunitense. Qui assistiamo alle vicende di un giovane delinquentello da strada immerso in traffici illeciti e impossibilitato a svincolarsene. La cruda realtà dei fatti non prende però il sopravvento sul dipanarsi delle vicende, al contrario invece sembra conviverci perfettamente senza perdere per questo incisività: l’illegalità appare nuovamente l’unica via di sopravvivenza (tema portante nelle opere di quel periodo). Imamura in questo senso convince pienamente, riesce cioè ad appropriarsi del soggetto vincendone l’insita usualità e questo nel momento in cui la tragicità del dramma inscenato riporta in maniera immediata e convincente ad una condizione sociale vera, sentita. L’intensità dell’epilogo riesce a folgorare sia nella sparatoria stradale sia soprattutto nella penosa solitudine della giovane co-protagonista totalmente abbandonata al proprio destino. Un film epico che va oltre il genere compiacendosene, osando sul piano estetico e narrativo senza mascherare anche attraverso simbolismi o allusioni (primo su tutti il titolo) una certa veemenza nel ritrarre l’avidità del popolo nipponico e la rabbia perla neo intesa storia con gli USA.

SHINODA, MASAHIRO – FIORE SECCO (1964)

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Tra i più celebri e talentuosi nomi della Nouvelle Vague giapponese, Shinoda vanta altresì capacità tecniche, sensibilità, raffinatezza e ricercatezza nella costruzione delle inquadrature, tali da far apparire quest’ultime come quadri nella loro estrema, minuziosa composizione e fascino estetico (primo su tutti l’eccelso ‘Himiko’). Visionario come pochi altri, egli punta spesso e volentieri ad appropriarsi di un determinato genere sottomettendolo al proprio estro e ad i propri canoni stilistici (riprese dall’alto, frequenti primi piani alternati, sequenze oniriche…) e demolendone i punti chiave, in questo caso duelli, sparatorie, amori tragici ecc. Ecco allora che ‘Fiore Secco’, più che un gangster, risulta essere un’opera a se stante che del genere appena nominato possiede solo le generalità del caso. Appena uscito di prigione, Muraki si reinserisce nel proprio clan di appartenenza. Apatico e disilluso, passa il tempo tra bische clandestine in compagnia di una giovane folle disposta a tutto pur di sperimentare esperienze sempre più intense. Se Suzuki dettava i cardini del genere gettandone le basi, M. S. destabilizza proiettandosi in una dimensione onirica, fatta di silenzi e di attese, di incubi notturni e notti da incubo fussliano che riecheggiano in un certo senso i toni francofoni di autori come Melville e Deray. Le figure vengono solo abbozzate, è l’ambiente che domina su tutto assorbendole; i tempi vengono notevolmente dilatati, le scene spesso rallentate così da far risaltare la carica emotiva del momento (espediente poco usato tra i connazionali suoi contemporanei). Il meccanismo è in effetti quello di lasciarsi inebriare dalla forte intensità suscitata, vivere le vicende come in soggettiva sprofondando in un vortice hitchcockiano che annebbi la percezione di reale e fittizio. Un film quasi apocalittico, di un esistenzialismo primitivo e nichilista.

YOSHIDA, YOSHISHIGE – CONFESSIONS AMONG ACTRESSES (1971)

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Non è un grosso azzardo definire Yoshida superiore al resto degli autori presi in considerazione in questa sede, tanto più se si parla di pura tecnica e non piuttosto di tematiche affrontate o quant’altro. Egli si è infatti saputo imporre sin quasi dagli esordi sul panorama suo contemporaneo grazie ad un’impronta stilistica di livelli insolitamente, qualitativamente alti, e ciò risalta in primis nella sconvolgente trilogia radicalista, che vede come punto di riferimento un analisi approfondita sulle varie dinamiche del potere politico nel Giappone novecentesco. Qui però siamo in tutt’altro contesto. ‘Confessions among actresses’ è infatti una riflessione sociale, psicologica ed esistenzialista sul rapporto tra vita privata e pubblica all’interno delle vite di tre star del Cinema, nonché l’analisi della figura femminile intrappolata nel sistema. La crisi individuale si identifica subito come crisi rappresentativa di un determinato status sociale e, al di là dei drammi personali che hanno portato le tre donne sull’orlo del tracollo lavorativo e personale, ciò che rimane è la proposta di uno sguardo alternativo sulle geometrie dei corpi in relazione allo spazio circostante. Come Kubrick, Antonioni ed altri eccelsi cineasti del suo tempo, YY costruisce un impianto sceneggiativo relativamente dinamico che, proprio per questo, risalta l’analisi registica compiuta sui soggetti e sul loro posto all’interno della singola inquadratura. Ma ancora, lavora sulla profondità di campo, sui vari contrasti di luce, sugli sguardi, sulle posture, sui vuoti, sugli angoli, sulle simmetrie insomma, si pone nei confronti dell’opera con intenti radicalmente innovatori, elevando, nonostante la massiccia presenza di dialoghi, i silenzi come rivelatori di verità altre, più intime, più profonde e rivelandosi in questo estremamente angosciante e opprimente.

KOBAYASHI, MASAKI – HARAKIRI (1962)

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Inutile a dirsi, ‘Harakiri’ è indubbiamente uno dei classici giapponesi più rinomati ed adorati in assoluto, complici svariati fattori: vuoi la straordinaria abilità con la quale Kobayashi mette in scena un dramma d’azione che d’azione è solo nelle parole, vuoi l’acutezza con cui i canoni della società nipponica del tempo vengono letteralmente messi in ridicolo, vuoi ancora l’impiego di uno stile che riesce ad unire entrambi i fattori in un’epopea di quasi due ore e mezza che non annoia nemmeno per un secondo. Un film d’arti marziali come tanti altri in apparenza, la fitta ed acuta trama per mezzo della quale un samurai caduto in disgrazia vendica la morte dell’amico ingiustamente umiliato tempo prima. Attraverso una matriosca di misteri la vicenda si rivela essere però estremamente più complessa, raffinata soprattutto nell’utilizzo di un impianto registico che fa perno sugli stati d’animo dei protagonisti, sulle loro espressioni e soprattutto sui silenzi, avvalendosi di questo per sottolineare la battaglia smitizzandola però, privandola della propria intrinseca consuetudinarietà. Carrellate, primi piani, piani sequenza insomma, tutto ciò che da un film di samurai non ci si aspetterebbe, un ‘Oldboy’ in salsa classica persino meno appetibile. Rinnovando un genere, l’approccio intelligente dell’autore innovatore rispetto alla materia trattata.

ICHIKAWA, KON – THE DEVIL’S BALLAD (1977)

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Col superamento del ventennio ’50-’60 i massimi riferimenti giapponesi si trovano a dover dare una piega ben diversa alla loro carriera, cambio di rotta che non sempre convince appieno. Nel caso di Ichikawa si verifica invece uno svecchiamento quasi stupefacente, rinascita che porta i frutti di una maturazione artistica più che stilistica meravigliando per l’ottima fattura dei prodotti. Tra i più affascinanti sicuramente spicca ‘The Devil’s Ballad’, una detective story convincente e mai banale ricca di interessanti spunti di riflessione ma soprattutto originale nella messa in scena e nella regia, inaspettatamente visionaria (a tratti) e pittoresca non meno di altri suoi colleghi. Gli anni della Nouvelle Vague sono ormai terminati così come i principi che, in Giappone, avevano favorito con tanto vigore il suo attecchimento, ciononostante non cede il passo la voglia di rinnovamento, e questo non tanto negli ideali quanto invero nell’evoluzione di uno stile magico e adorabilmente nipponico, di nuovo.

SUZUKI, SEIJUN – LA FARFALLA SUL MIRINO (1967)

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Già ai suoi tempi grandemente innovativo tanto da costare al regista sacrifici ed osteggiamenti, ‘La farfalla sul mirino’ è probabilmente il fiore all’occhiello della filmografia di Seijun Suzuki nonché uno dei gangster giapponesi più riusciti. Riuscito grazie all’impiego di tecniche ai tempi rivoluzionarie così come soprattutto al suo volersi definire immediatamente un anti-gangster, nella costruzione dei personaggi e nella resa generale progressivamente caotica e confusionaria. Ed è proprio questo che contraddistingue il film in causa dal resto delle opere del genere: l’impressione generale è infatti quella di assistere ad una trama piuttosto semplice che progredendo, più che infittirsi in effetti degenera, perde forme, contorni e persino identità quasi come in un film di Lynch. È lo stampo dell’autore, lo stesso di molte altre sue opere, dal bizzarro ‘Fighting Elegy’ al più tardo ‘Zigeunerweisen’, quell’impronta satirica (poi ripresa da autori come Miike) a distorcere palesemente i palinsesti del genere, dal killer infallibile, anti-eroe dai lineamenti caricati incastrato dal proprio ambiente e in lotta con un misterioso assassino senza volto (vistose le gote rigonfie) alla “pupa” psicotica e poco accattivante fino alla vera e propria assenza di un intreccio convenzionale, anzi. Straordinario a tutti gli effetti, anche per i non appassionati del genere, LFSM rientra pienamente nei canoni della Nouvelle Vague giapponese per intenti e realizzazione.

SHINDO, KANETO – KURONEKO (1968)

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A pari passo con ‘Onibaba’ viaggia il cupo, distorto ‘Kuroneko’, opera tetra e folgorante del maestro Shindo. Ciò che va riconosciuto a quest’ultimo è principalmente la capacità di essersi saputo ritagliare intelligentemente uno spazio ma grazie ad uno stile e ad un genere unici, fino ad allora mai minimamente sfiorati se non incidentalmente o in maniera pressoché superficiale (Kinugasa, Honda, Kobayashi ecc). Qui ci si muove in ambienti bui, claustrofobici, impenetrabili. Il silenzio viene rotto quando da improvvisi bubulati quando da agghiaccianti urla e qui arriviamo al fulcro dell’opera, ovvero la storia di due donne brutalmente assassinate che tornano in vita come fantasmi massacrando innocenti. Non vi è quasi il bisogno di particolari virtuosismi, l’opera è costruita alla perfezione dal regista in modo tale da stravolgere lo spettatore alla benché minima svolta, complici in primis gli sguardi raggelanti e furiosi delle due protagoniste, truccate, vestite ed istruite a regola d’arte. Che dire ancora, un horror d’antologia che getta le basi del genere con poche, geniali intuizioni: siamo all’abc della Nouvelle Vague giapponese.

TESHIGAHARA, HIROSHI – OTOSHIANA (1962)

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Criptico, misterioso, angosciante, sadico. Gli aggettivi a commento di quest’opera si spendono in abbondanza, dunque da dove partire? Un uomo in cerca di impiego viene mandato in una città fantasma e, una volta giunto, brutalmente assassinato da un misterioso killer in bianco. Ma perché proprio lui? Una volta deceduto, il suo spirito vagherà attonito in cerca di una risposta: un’intricata trama guidata da ignoti mira al controllo dei due principali pozzi petroliferi della zona. C’è un’unica, grande costante nei film di Teshigahara, ovvero tutto torna e niente torna. Esiste (forse) infatti una spiegazione per le tremende, inconcepibili barbarie inflitte ai vari protagonisti di turno, ma vi è così poca umanità nel loro concepimento da stravolgere letteralmente lo spettatore. Il male viene infatti disumanizzato, inflitto senza scopo apparente con malvagità spropositata. Dal tesissimo incipit al finale fors’anche più atroce, amaro, HT assembla (facendo perno sulle straordinarie sceneggiature/ opere di Kôbô Abe) la pellicola come una scala di Penrose, un sapiente costrutto i cui ingranaggi scorrono lenti e ben oliati e le cui basi risultano minate dalla fondamentale inconsistenza del principio regolatore. L’impianto stilistico è probabilmente uno dei (se non il maggiore) punto di forza del film: si basa infatti su di un surrealismo visivamente accattivante ed intraprendente. Musica ridotta a pochi, strazianti espedienti, dialoghi intervallati intelligentemente a sequenze spesso lente e durevoli e una regia prevaricatrice con campi medi e lunghi. Teshigahara utilizza un’estetica maestosa per raccontare attraverso una trama fitta e ingarbugliata dell’avidità umana e dei suoi risvolti sulla fascia meno abbiente ricollegandosi così ai principi chiave della nuova ondata rivoluzionaria nipponica. Ancora una volta, come ne ‘La donna di sabbia’, tanta la rabbia, tanta la meraviglia, poche le risposte.

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