Risvolti #1 – Sergei Loznitsa: il Cinema dell’eternità

sergeiloznitsa

Nel corso di una carriera composta finora da all’incirca venti lavori, de quali solo due annoverabili come “di finzione”, Sergei Loznitsa (1964, Baranavicy, Ucraina) ha protratto un discorso collettivo di origine autoctona, legato a doppio filo alla relativa controparte politica, riflettendo contemporaneamente sul valore del cinema come mezzo di comunicazione, sulla dimensione di quest’ultimo e sulle sue potenzialità. Partendo da Life, autumn (Zhizn, Osin, 1999), opera prima dell’autore, se non si considera la precedente parentesi amatoriale, si rivela immediatamente il carattere analitico del suo Cinema, a forte impronta d’indagine, quasi uno studio dell’ambiente sociale russo che riprende individui della classe indigente nel proprio luogo d’origine, piccole realtà rurali filmate prettamente nello svolgimento di attività agricole, talvolta viste all’opera nel settore secondario, vedasi Factory (Fabrika, 2004). Vige pertanto un estremo libertinismo nel lavoro dell’autore, lavoro che prescinde da qualsiasi logica del Cinema canonico,  concentrandosi sull’immagine come entità a sé stante, proiezione del reale ed allo stesso tempo illusione di realtà.

Fotogramma da Artel (2006)

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A livello formale la filmografia di Loznitsa può classificarsi grossomodo in tre fasi: quella che va dagli esordi al 2006, alla quale seguono la digressione dei film a soggetto e la fase relativa ai documentari politici a sfondo storico/sociale. Soffermandosi sulla prima di queste, si nota un‘impostazione rigorosa e radicale ma dai toni rasserenanti, catartici, dal respiro leggero, estremamente vicina al Cinema post-sovietico del periodo, in particolare al primo periodo sokuroviano. La sequenza si fonda sul montaggio di riprese statiche molto spesso tra loro indipendenti, quadri che contemplano lo svolgersi di un’attività piuttosto che l’ambiente stesso, spoglio di qualsiasi artificiosità o rarefazione. Nessuna formulazione narrativa è mai presente nella cifra stilistica di Loznitsa, il suo è un approccio che cerca l’astrazione della materialità e vede il mezzo cinematografico come possibilità di rappresentare il tempo nel suo ciclo continuo; persistenza di vita, quindi, espressione di un gesto che nel suo farsi consacralizza l’immagine conferendogli corporeità ed assolutezza.

Fotogramma da The Settlement (Poselenie, 2002)

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In questa costruzione strutturale sussiste una metodologia applicata scrupolosamente nella lunghezza della singola ripresa, studiata per essere sempre omogenea così da non rivestire mai più importanza della successiva, piuttosto che della precedente. Un sistematismo di derivazione matematica (prima professione dell’autore) che trova armonia nell’assenza di tecnicismi orientati al racconto, demolisce l’idea tradizionale di inquadratura diretta al s/oggetto, per realizzarne una universale. Non esiste più il piano o il campo, ogni ripresa è un piano-campo che stabilisce conformità all’insieme, concretizzando quindi l’idea di immagine-tempo di per sé anarchica ed avanguardistica. Quello di Loznitsa, difatti, è un Cinema che scandisce il tempo, vive nel tempo e si alimenta dello stesso, consente alla memoria di riaffiorare nel presente attraverso la pellicola che così facendo abita la vita e comunica il suo scorrere irrefrenabile; da qui l’idea di Cinema del tempo, Cinema dell’eternità.

Fotogramma da Northern Lights (Severnyy Svet, 2008)

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Se dunque nelle opere dell’artista ucraino si può parlare di essenzialità, e cioè di un approccio incentrato sulla muta venerazione degli spazi, di ciò che conferisce loro voce e valenza estrinseca, si può altresì parlare di circolarità. Non si tratta infatti di condividere un’esperienza o vivere un disagio quanto proprio di partecipare ad un ciclo vitale inestinguibile, un viaggio fatto di soste che altro non fanno se non completare e definire lo stesso attraverso una logica del connaturato e (a seconda delle circostanze riprese) del panico, doloroso, soffocante incedere dell’universo e di ciò che lo compone e distingue. Ciclo che sviluppandosi ha saputo intraprendere strade diverse, funzioni differenti, talvolta apparentemente più agevoli, conservando, ciò nonostante, spiritico critico, onestà artistica e coerenza autoriale. Risulta pertanto evidente che la finzione per Loznitsa non fornisca altro che un pretesto per muoversi più liberamente a livello espositivo; a riprova di ciò, si può considerare il mantenimento degli stessi principi applicati sui documentari, difatti, in entrambi i casi le opere dell’autore mostrano l’irriducibilità dell’individuo collocato nel contesto post-sovietico, lo immortalano intentando un’indagine che, in fin dei conti, risulta sempre profondamente critica: manifestazione di dissenso politico o denuncia di uno status sociale, intraprese per opera di un’inchiesta sociologica (Maidan, 2004) che può altresì rievocare eventi del passato riflettendo allo stesso tempo sull’attualità, come nel caso del suo ultimo The event (Sobytie, 2015). Quasi come nei panni di un cronista, l’autore ha saputo combinare il bisogno di raccontare una faccia scomoda della Russia, le ripercussioni di una nazione sperduta sul suo popolo, perfettamente emblematizzate in My Joy (Schaste moe, 2010), a quello più teorico ed avanguardista, che sperimenta sullo strumento stesso che è il Cinema.

Fotogramma da Anime nella nebbia (V tumane, 2012)

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