Karamay

Kelamayi (2010) – Xu Xin / Cina

È possibile dimenticare, ignorare, distruggere in maniera così turpe la speranza di tante, troppe anime, lasciando sparsi per un intero paese brandelli di morte, frammenti di macabri eppur innegabili tragedie umane. È possibile nel momento in cui ci ritroviamo ad osservare la mancata ottemperanza di leggi naturali ancor prima che giuridiche o religiose, nell’istante dopo il quale ogni decenza viene vituperata e dimenticata a favore della disdicevole, orribile, irreprensibile mancanza di volontà, di tutto ciò che dà forma e spessore ad un individuo. Se il dolore al contrario perde valore e significato, se ci riscopriamo ridotti a semplici automi, velati negli atti da un’entità superiore, allora Karamay non può che essere una scintilla nel buio dei secoli, una conseguenza prevedibile quanto inevitabile.

Nel 1994 Karamay, ricca città nel nord della Cina, fu teatro di una delle più cruente e tragiche pagine nella storia dell’umanità. Durante una rappresentazione teatrale, tenuta da innumerevoli studenti in onore di una delegazione di funzionari statali, un enorme e inaspettato incendio divampa: vengono fatti evacuare gli ufficiali governativi e tenuti in attesa i restanti presenti. Risultato: 323 morti. In seguito all’incidente le autorità vietarono ogni tipo di commento o pubblicità a riguardo, censurando e obbligando i familiari delle vittime al più assoluto silenzio. Qui entra in scena il regista Xu Xin, che dà voce e potere alla popolazione, svela i retroscena, ricostruisce l’accaduto per mezzo di scioccanti resoconti di familiari, testimoni e presenti, oltre a mostrare filmati inediti dell’accaduto e atroci conseguenze sui sopravvissuti alla tragedia.

Ciò che ‘Karamay’ impone ed esercita, attraverso un meccanismo di magnetica istigazione alla ribellione, è una folle ed esaltante repulsione per la violenza, sì, ma ancor di più per tutto ciò che si cela alle spalle del suo inspiegabile opportunismo, in primis la dimenticanza, l’egoistica imposizione del potere sulla tragedia del popolo. Quella accaduta in questo caso è infatti la prova di una mancanza, di una radicale perdita di umanità dettata dal timore, il timore che ogni autorità ha di perdere il proprio potere. Quando però a pagarne le conseguenze sono centinaia di morti, centinaia di vite innocenti, lo sdegno non può che tramutarsi in qualcosa di molto più, in un sentimento di vendetta. L’autore cinese si inserisce a questo riguardo col preciso scopo di riesumare, di ridestare una coscienza individuale scomparsa, un’onta insabbiata e dispersa che grida vendetta arsa dal fuoco accecante della meschinità. A questo senso la vendetta è forse il concetto chiave, ciò che muove maggiormente le fila all’interno del lavoro compiuto da Xin. Vendetta necessaria, atto perciò che molto intelligentemente, in apertura, non poteva che tornare sulle ceneri, piangere sulle tombe degli scomparsi, affrontare le radici del dolore direttamente per destare immediata compassione.

E se dunque sono le sensazioni a muovere questo pietoso viaggio alla ricerca di un ricordo, di un motivo per comprendere e accettare, la rabbia domina le inquietanti testimonianze che riempiono la quasi totalità dell’opera. La più semplice delle formule, il racconto diretto, in questo caso è il perfetto tramite grazie al quale imprimere su pellicola la verità, la fondamentale sperimentazione del dolore che essa sola può giudicare e che proprio per questo assume importanza capitale. Un’immagine perciò, quella posta, che si libera di ogni altro canone interpretativo, utilizzando e quasi glorificando la percezione del giusto, del vero, di ciò che spetta ad una tragedia in quanto tale, alla morte ingiustamente avvenuta, alla perdita incommensurabile che familiari e testimoni provano in questo caso a concretizzare. Un’opera come questa dunque non abbisogna di particolari concezioni se non quella di essere umano consapevole. Non commuoversi, non rivoltarsi contro tutto quanto mostrato, è inconcepibile. Videotape, registrazioni, la stessa, struggente osservazione di una povera ragazza sfigurata, sono le sole armi che Karamay’ possiede; e a contare non è tanto la ripresa della realtà, quanto la ripresa intelligente, inequivocabilmente e socialmente veritiera del degrado di un mondo anestetizzato, privato del senso di perdita e inconscio della gravità dei propri atti.

A conti fatti, in opere come questa, pervase dal sentore di una verità immeritevolmente buia e ripugnante, l’esperienza non può che soverchiare l’immagine stessa, rivalutata scomposta e svuotata del suo valore visivo, accantonata e volutamente adeguata al contesto ripreso (non più dunque fuorviante, cornice di un percorso, quanto invece semplice trasparenza, in tutto e per tutto ininfluente). L’esperienza come vita, l’esperienza come insegnamento e come apprendimento, come superamento e accettazione, come, per dirla pressappoco con le parole del connazionale Wang Bing (estremamente affine a Xin per tematiche trattate e approccio filmico alla materia, necessario a questo senso il ri-collegamento col suo ‘Feng ai’), “incognita, riscoperta”, dunque, come rinascita. In questo senso si può affermare che ‘Karamay’ sia una delle opere centrali degli ultimi vent’anni, un baratro oscuro e dilagante, fondamentale.

Voto: ★★★★★/★★★★★

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2 risposte a Karamay

  1. davide bianchera ha detto:

    mi interesserebbe vederlo, è possibile avere un link o un “torrente”?grazie ciao

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