Interviste #2 – Roberto Minervini

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Roberto Minervini (Fermo, 1970), regista e sceneggiatore italiano tra gli sguardi più meritevoli di attenzione all’interno del panorama contemporaneo d’oltreoceano. La sua carriera cinematografica inizia nel 2005 con la produzione indipendente di vari corti e il suo primo lungometraggio arriva sei anni dopo (‘The Passage’). L’anno successivo presenta il suo nuovo lavoro alla sezione Orizzonti del Festival di Venezia, ossia il promettente ‘Low Tide’ ma è solo nel 2013 che realizzerà la sua opera più matura ‘Stop the pounding heart’. Il regista ha presentato quest’anno, per la sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, il suo ultimo lavoro: ‘Louisiana (The Other Side)’.


Cinepaxy: Innanzitutto la ringraziamo per la disponibilità e per il tempo concessoci. Dunque, il 28 maggio è uscito nelle sale italiane il suo ultimo lavoro, ovvero “Louisiana – The Other Side”, un film molto interessante ma soprattutto rivoluzionario nel mettere in scena una realtà scomoda. Come è nato il progetto del film? Quali necessità la hanno spinta a rendere noto un volto simile degli Stati Uniti?

Roberto Minervini: Il progetto è nato come proseguimento del mio percorso artistico. Tutti i miei film sono collegati tra di loro, ci sono relazioni di parentela, spesso di amicizia tra tutti i personaggi dei miei quattro lungometraggi e qui ‘Louisiana’ non fa eccezione. L’esigenza, poi, di raccontare queste storie ha carattere più politico. Il fatto è che comunque vivo in America da 15 anni e ho fatto un percorso comune, cioè dalla costa Est di New York, dove ho fatto anche studi e dove ho continuato il mio impegno politico che ho iniziato da adolescente in Italia, fino nel Texas, dove ho iniziato a toccare con mano quelle che erano la problematiche più importanti della politica americana, cioè la grossa spaccatura tra istituzione e opinione pubblica e la manipolazione informativa dei media, di questo ne parlano molto autori progressisti di sinistra come Chomsky, per esempio. Mi sono trovato per certi versi in una situazione ambigua perché, avendo dapprima fatto parte di questa élite intellettuale americana, ho dovuto pagarne le conseguenze una volta passato nell’altro versante, percependo l’isolamento politico della stessa parte che supportavo. Lo stesso dicasi per Obama, che pur avendo attuato delle operazioni politiche importanti, come quella del Welfare, ha incattivito l’opinione pubblica con delle scelte anche controverse in politiche estere e nel Medio Oriente. Quindi, per tornare a quanto detto, per me c’è sempre stata l’esigenza di dar voce a coloro che esprimono odio nei confronti delle istituzioni, nella fattispecie di Obama, ed era importante anche andare a capire le motivazioni di quello che è un malcontento profondamente radicato qui nel Sud.

CP: Quindi una tematica che, in quanto cittadino americano, ha sentito di dover affrontare personalmente…

RM: Sì, in assoluto, così come è sentita la problematica delle armi, del controllo, tutte tematiche che mi interessano e riguardano profondamente. Il mio approccio filmico è poi simile a quello ideologico, vale a dire che tendo a dare molta importanza alla trasparenza, al giocare a carte scoperte, dunque per me era molto importante fare luce su dei problemi e dei contesti oscurati,  specialmente dai media.

CP: In questo senso si può dire che ‘Louisiana’ sia stato il suo primo film politico, ossia il primo ad affrontare le tematiche già citate, al contrario dei lavori precedenti dove si notava invece un interesse più sociale che politico. 

RM: Sì, sicuramente più sociale. C’è da dire che un discorso politico è riscontrabile anche in ‘Stop the Pounding Heart’, non tanto nel film quanto più nel materiale girato, ed è lì che ho iniziato a sondare il terreno per il forte malcontento politico, ma in quel caso si andava oltre, in una situazione proprio emblematica del Sud. Comunque nel girato c’è molto materiale politico nel quale si mette anche in discussione la figura di Lincoln e tutte le controversie legate ad esso: la politica di abolizione della segregazione razziale, il malcontento generale, l’alienazione dalle istituzioni centrali.

CP: Parlando della realizzazione del film, ha riscontrato particolari problemi durante le riprese?

RM: Problemi logistici ce ne sono stati molti in questo film perché comunque mi sono trovato a filmare l’illegalità oltre che a viverci, avendo peraltro contribuito ed essendo stato anche parte attiva di queste azioni illegali. Ciò che ha unito me ai miei personaggi è stata però soprattutto la paura, la paura di non farcela in tutti i sensi, di non portare a termine il lavoro anche per timore che ci succedesse qualcosa di sgradevole.

CP: Ora passiamo ad altro. ‘Louisiana’ è un lavoro che sia nella classificazione (film documentario), sia nello stesso titolo originale (‘The Other Side’) rende immediatamente palesi i propri intenti. Nella coppia di protagonisti, nella loro dipendenza dalla droga, nella loro incapacità di slegarsi dalla realtà nella quale sono immersi si può dedurre un carattere altro da quello dell’inchiesta sociale?

RM: Per certi versi esiste sicuramente un altro intento oltre a quello di dipingere un affresco socio-politico del Sud statunitense, sicuramente, anzi posso dire che sia un comune denominatore nei miei film, ed è l’aspetto umano e ma soprattutto la necessità dell’amore visto come condizione di vita o di morte. L’amore come bisogno anche egoistico, come bisogno primordiale ma non necessariamente positivo, quindi come unico possibile antidoto alla paura: l’inevitabilità della paura, la paura di morire in quei campi, quasi pre-adolescenziale. Il timore che essere privati dell’amore coincida col morire. La paura di non trovare il percorso e quindi di non trovare Dio: paura della morte. Possiamo dire che mi interessava inoltre la religione, la fede, cioè qualcosa di cieco ed infantile, sicuramente poco elaborato, quindi la fede cieca in contrapposizione ad una paura primordiale di morire. E in questo caso la ritroviamo proprio nel voler proteggersi l’uno con l’altro: l’amore forte, folle e sempre ribadito tra Mark e Lisa scaturisce sicuramente dalla paura di non farcela, e mi ha sempre interessato questa mancanza di amore come questione di vita o morte, che è poi la vera essenza umana.

CP: In che modo definirebbe la progressiva maturazione riscontrabile di opera in opera?

RM: Vedo continuità nel mio percorso sia umano che autoriale, infatti all’inizio c’era in me una certa titubanza nel mondo del reale, che conoscevo solo parzialmente, una volontà di immergermi in questo tessuto sociale che cominciavo appena a conoscere, ovvero quello del sotto-proletariato texano. Inizialmente, però, l’ho fatto attraverso gli occhi di un bambino, con un personaggio solo e centrale, senza addentrarmi completamente in un contesto sociale, qui invece partendo dal singolo mi sono esteso fino ad un contesto familiare ed infine sociale.

CP: Dunque ‘Louisiana’, rispetto agli altri suoi lavori, lo reputa quello più completo.

RM: È sicuramente il lavoro più complesso perché il meno narrativo nella sua interezza, però è forse più semplice nei suoi intenti anche se più complicato nella realizzazione. Al tempo stesso le microstorie raccontate sono molto trasparenti, molto comprensibili e decifrabili, qui vi è appunto un macrocosmo composto da microcosmi che si parlano tra loro: quello antropologico, quello umano-primordiale di emozioni e sentimenti, quello socio-politico ed infine quello ideologico. È un livello di complessità che ho raggiunto passo dopo passo. Per certi versi sento di essere arrivato a una sorte di apice, di traguardo, qualcosa che comunque mi appaga e dopo il quale necessito anche di una pausa di riflessione.

CP: Perciò un’evoluzione sia strutturale che di sguardo, rispetto anche a ‘Stop the pounding heart’.

RM: Penso che quest’ultimo sia sicuramente il film che mi appaga di più, anche perché ‘Stop the pounding heart’ aveva lasciato, mio malgrado, una porta aperta ad uno sguardo accondiscendente, anche paternalistico, nei confronti della protagonista. In realtà era piaciuto anche a chi compativa Sara, non solo a chi la comprendeva, e io non volevo che in ‘Louisiana’ ci fosse spazio alcuno per la compassione e per la pena. Qui ho pensato soprattutto a rompere la quotidianità narrativa per portare la riflessione sul piano concettuale e non narrativo, per questo è il lavoro che mi appaga di più.

Stop the Pounding Heart (2013)

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CP: Anche perché proprio durante il film, se nella prima parte vengono riprese specularmente le vicende di Mark e Lisa, nella seconda si procede su un piano del tutto concettuale, abbandonando il singolo per dare una visione più ampia del contesto.

RM: Sicuramente, per me era infatti necessario abbandonare questo grado di intimità. Se questo fosse un discorso letterario potrebbe essere interpretato come la prima parte prefazione della seconda o la seconda postfazione della prima, a seconda del modo in cui la si vuole leggere. La prima parte è sicuramente più intima, verista (in termini letterari), c’è persino qualcosa di quasi proustiano, non troppo distante da un viaggio nei meandri della memoria. Al contrario, nella seconda parte vi è un discorso completamente diverso, che per certi versi potrebbe sembrare più austero, più distante e saggistico.

CP: A proposito di reminiscenze, oltre a quelle letterarie che ci ha riferito ne possiede anche di cinematografiche? Si sente debitore nei confronti di qualche regista o corrente in particolare?

RM: Magari non debitore poiché non ho ispirazioni dirette, mi sento più debitore nei confronti di fotografi, ed in generale dei tecnici. Detto questo ci sono sicuramente dei cineasti che ammiro per il loro percorso umano, per la loro integrità ed anima indipendente nel vero senso della parola. Ci sono molti autori del cinema brasiliano marginale che sicuramente apprezzo molto, da Ruy Guerra a Nelson Pereira dos Santos: cineasti che utilizzano un linguaggio sperimentale in un contesto politico molto difficile, e dei quali apprezzo il coraggio; ma a prescindere da ciò è molto importante la loro visione autoriale. Tra i contemporanei apprezzo molto sicuramente Carlos Reygadas, mio grande amico: tutto il suo lavoro nasce da un’indole indipendente, è l’unico vero autore tra i relativamente giovani, considerando che ha iniziato agli inizi del 2000 con un film come ‘Japón’.

CP: Come interpreta il ruolo dell’autore nei confronti del pubblico? Crede che quest’ultimo abbia delle responsabilità, quindi possa prescindere dalle influenze economiche potenziali, di mercato o dall’industria produttiva?

RM: È difficile dirlo, io non sono un grande appassionato di Cinema da sala. Penso che nell’industria cinematografica siano presenti personaggi dannosi, manipolatori, e quando la manipolazione raggiunge un’audience così alta diventa pericolosa, acquista proprio un carattere politico; la manipolazione mediatica è una delle malattie croniche più gravi e devastanti dei tempi moderni. E quando i media iniziano ad influire sul Cinema ecco che alcuni autori acquisiscono una grossissima responsabilità in quanto manipolatori. Quindi sì, esiste una loro rilevanza sociale nel loro ruolo di contraffattori. Fare scelte di mercato volte a vendere non permette di mantenere una certa integrità verso il pubblico, soprattutto quando si tenta al tempo stesso di creare un dialogo.

CP: Crede pertanto che esista un contrasto di fondo tra la pratica del mezzo che definisce manipolatrice e il compimento di una comunicazione attraverso l’oggetto filmico? Considera la prima delle due irrimediabilmente fallimentare?

RM: Sì, credo proprio di sì. Non credo che si possa guardare con un occhio al dialogo col pubblico e con l’altro alla vendita del prodotto. Ciò non toglie che esistano lavori importanti per altri aspetti (penso per esempio alla forma, alle grandi innovazioni narrative o alle grandi performance di scrittura), ma per quanto mi riguarda non sono particolarmente interessato al Cinema in questo senso, la trovo un’arte molto volgarizzata.

Louisiana (The Other Side) (2015)

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2 risposte a Interviste #2 – Roberto Minervini

  1. ohdaesoo ha detto:

    Beh, complimenti, intervista oltre che interessantissima molto completa…
    Lo vedi? continuo a recensire film cercando in tutti i modi di eludere letture sociali e politiche e poi lo stesso Minervini mi dice che quelle erano le sue prime istanze. Io continuo a vedere Louisiana come uno splendido affresco umano, ma questo è un problema mio 😉
    Io gli avrei fatto domande magari meno interessanti ma più specifiche su quanto nelle singole scene ci sia di sceneggiato e quanto no.
    In ogni caso complimenti ad entrambi 😉

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    • cinepaxy ha detto:

      Grazie mille, gentilissimo! Eppure anche la tua analisi del film mi aveva soddisfatto, certo in questo film ancora più che negli altri di Minervini l’aspetto socio-politico è molto evidente e ricercato. Per quanto riguarda le domande sarebbero state interessanti anche quelle da te citate ma purtroppo il tempo era quello che era…

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