Un chien andalou (1929) – Luis Bunuel / Francia
1929. Manifesto del surrealismo. Bunuel e Dalì collaborano alla creazione di un’opera nuova, destinata a riformulare il linguaggio cinematografico. ‘Un chien andalou’ nasce come un esperimento, la prova del dissenso ideologico dei due autori verso le politiche cinematografiche allora vigenti. Quest’ultimo è infatti è da elencare tra le opere che più hanno fatto scalpore alla loro uscita, complice un’irriverenza e un avanguardismo tecnico/autoriale tra i più sconvolgenti e reazionari dalla nascita del Cinema. Non c’è modo di rifarsi ad costruzione narrativa lineare, tanto meno sequenziale. L’intera vicenda ruota intorno alle figure di un uomo e una donna che, per varie ragioni, non riescono mai a trovarsi pacificamente, ma questa, se vogliamo, è una ricostruzione semi-sensata che il regista, volutamente, non fornisce in modo esplicito.
Il film ha inizio riprendendo il regista stesso colto dapprima nell’atto di fumare sulla veranda: subito dopo taglia l’occhio (suggerito da una nuvola che attraversa la luna) di una donna, simbolo dell’autore che con la sua poetica vuole costringere lo spettatore a guardare l’inguardabile e lacerargli l’occhio con il suo Cinema. Seguono varie scene che riportano al rapporto tra un uomo e la stessa donna dell’inizio. L’uomo, con un buco nella mano dalla quale escono formiche. Egli stesso che, prima si avventa sulla femmina palpandole il seno e godendo con espressione animalesca mentre se l’immagina spoglia, e in seguito mentre la insegue si ritrova a trainare due pianoforti con legati insieme due carcasse d’asino piene di sangue e due preti. È proprio in queste due immagini che si nota maggiormente la critica verso la Chiesa – vera e propria ossessione dell’autore – che blocca l’espressione umana e ne limita le azioni con i suoi dogmi stupidi e innaturali. Critica che tornerà poi in quasi tutte le pellicole seguenti di Bunuel, qui al suo primo film (si noti ad esempio ‘Il fascino discreto della borghesia’ e ‘La via lattea’ tra i migliori esempi).
Tecnicamente, l’opera si presenta come una grande unica mostra surreale e onirica, senza consequenzialità e senza tempo: essa infatti viene scandita da didascalie che “schiaffeggiano” letteralmente lo spettatore portandolo avanti e indietro di anni, mesi e stagioni ma sempre falsamente e senza criterio, perché gli eventi si verificano in un perfetto susseguirsi temporale. Il concetto di tempo è da sempre al centro dell’operato di Dalì: qui esso è dichiaratamente nullo e insignificante: serve a trasmettere un’idea ciclica ed eternamente immutabile, quasi un incubo allucinante. La musica segue il film gaiamente e spensieratamente, come fosse una parata domenicale, accompagnando mani mozze e improbabili materializzazioni e ottenendo così un effetto estraniante e stridente. La regia è impeccabilmente funzionale al susseguirsi delle azioni. Essendo un’unica grande sequenza il film, della sola durata di 15 minuti, risulta come un concentrato di follie provocanti e derisorie che, apparentemente illogiche, ad uno sguardo più attento lasciano intravedere tracce Freudiane e Marxiste. Un’opera di un’importanza chiave per il successivo lavoro di molti artisti a venire.
Voto: ★★★★/★★★★★
Complimenti per la recensione, non avrei mai immaginato che si potessero estrapolare cosi tanti temi da un cortometraggio corto e contorto come un chien andalou!!
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Grazie Ale, effettivamente sono pochi i cortometraggi significativi e simbolici come questo, ‘Un chien andalou’ è unico proprio per la sua importanza storica e avanguardistica.
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