Akasen chitai (1956) – Kenji Mizoguchi / Giappone
L’ultimo film di Mizoguchi risulta essere una visione indelebile, affascinante e quantomai profonda, il suo ritratto più cupo e provocatorio. Un testamento veemente e indelebile che rivela, attraverso la forza dell’immagine, tutta la volontà provocatoria di un autore sempre impegnato e sempre socialmente graffiante. La storia è quella di cinque donne di una casa di tolleranza che, ciascuna coi suoi problemi e la sua fatica a tirare avanti, cadono nel panico quando vengono a conoscenza del dibattito in Parlamento per l’approvazione della legge sulla chiusura delle case chiuse.
Il film si getta veemente in difesa della condizione della donna nella società giapponese ma, a differenza del suo precedente ‘Vita di O-Haru, donna galante’, dove si può riscontrare una critica simile, qui lo sguardo dell’autore nipponico è più duro, riuscendo quasi provocatorio. I gestori della casa di tolleranza sono ritratti come dei bambocci senza ideali e la maggior parte del film è focalizzato nel tentativo di far prendere coscienza allo spettatore attraverso le commoventi vicende delle donne in questione. Si ricorda per esempio di Hanae, con un figlio appena nato e un marito disoccupato. Il fulcro dei loro problemi è il denaro. Mizoguchi difatti gioca proprio su questo, e cioè che il denaro, che tanto sporcamente sono costrette a guadagnarsi, sia l’unico amico che hanno per liberarsi dalle proprie condizioni. Nel finale infatti sarà proprio l’unica delle cinque che più avrà guardato in faccia la realtà, sfruttando a suo favore avidità e calcolo, ad uscire definitivamente dalla casa.
Un film questo che, come gli altri del maestro, conferma la sua grandissima vena narrativa, capace di miracoli, come trasportare su pellicola una storia semplice e comune rendendola straordinaria grazie ad un uso estremamente sapiente di ogni aspetto tecnico. Il suo grande interesse umanistico ed esistenziale viene trasportato completamente nei suoi film e ogni singola scena riesce a commuovere dal profondo per l’essenzialità di ogni singola parola o dialogo, per l’interesse antropologico e sociale ma soprattutto per la natura di fatto universale delle sue parabole di vita, ognuna unica e indelebile. Le singole storie nel film in questione si intersecano e dibattono nelle difficoltà del quotidiano commuovendo fin dal primo secondo e catapultando letteralmente lo spettatore nei loro panni, e la sequenza finale è davvero essenziale a questo senso.
L’autore rifiuta per l’ennesima volta ogni ricamo artistico ed estetismo lasciando libero sfogo alla vicenda umana e mettendola in primo piano, così da far risaltare maggiormente il dramma in atto. La sequenza finale infatti risulta molto efficace a questo senso; lo sguardo malinconico col quale una delle donne osserva l’amica allontanarsi racchiude l’essenza di un intero film. Del resto Mizoguchi lo abbiamo visto capace di film ben più crudi e drammatici, ricordando le tragiche sevizie inferte dallo spietato intendente Sansho nel film omonimo, oppure il tremendo finale dei due innamorati pronti a morire ne ‘Gli amanti crocifissi’. Anche qui si nota tutto il coraggio di uno splendido regista, pronto a criticare e provocare nonché paragonato per le sue grandi dote artistiche al maestro Kurosawa.
Voto: ★★★/★★★★★