Deserto Rosso

Deserto rosso (1964) – Michelangelo Antonioni / Italia

Antonioni ci mostra le vicende di una donna, Giuliana, moglie di un industriale e in piena crisi, dopo il tentato suicidio e l’insuccesso delle cure psichiatriche. Questa conosce, in una delle sue visite al marito, un suo collega di lavoro e i due iniziano a vedersi; entrambi sperano di trovare conforto nell’altro. Realizzando la reciproca alienazione sociale e l’impossibilità di supportarsi a vicenda, essi si separano e il film conclude con uno sguardo sul paesaggio industriale che fa da sfondo alla vicenda.

Il sentimento di inadeguatezza percepito da Giuliana, ovverosia il vero protagonista dell’opera, porta la giovane all’isolamento, a reazioni tanto inconcepibili quanto spesso ingiustificate, come le improvvise crisi o le uscite emblematiche e al contempo sconclusionate (“Mi fanno male i capelli”); l’assenza completa del marito nella sua vita non fa che peggiorare la situazione, anche se rammentiamo come la presenza maschile spesso non sia che un segno di disprezzo nei film di Antonioni, come ne ‘L’avventura’, ma allo stesso modo anche ne ‘La notte’, e ne ‘L’eclisse’.  Più che raccontato, il Cinema di MA va vissuto proprio perchè si rifà alla sfera emotiva dell’individuo e ad il suo inserimento all’interno di un nucleo sociale indicativo, omologato, si nutre infatti di poco altro.

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Una filosofia – quella del cineasta italiano – che si ricollega direttamente ad un tormento ed un senso d’inadeguatezza esistenziali quasi primordiali, propri dell’essere umano. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni sensazione provata, perfino ogni spazio vuoto, nella sua arida e squallida persistenza, restituisce un’incomunicabilità ed un difetto vitale tormentanti e squallidi. E così l’uomo si ritrova a vagare costantemente per paesaggi scarni ed essenziali, vuoti e grigi, insensati e muti, con l’unica consapevolezza della sua imperterrita solitudine ed emarginazione, le stesse circostanze che verranno a ripresentarsi altrettanto splendidamente in ‘Professione: reporter’; emarginazione da un mondo e da una razza intera che tanto più è umana e simile ad esso tanto più riconferma la sua imperfezione e la sua insensatezza. Antonioni si muove ancora una volta all’interno di quella frattura che isola l’individuo dal proprio ambiente rendendolo inadatto, eppure al contempo pare fraternizzare con tale sensazione, non additarla, la demistifica portandola su un piano universale. La protagonista non è sola, condivide i propri spettri con gran parte dei personaggi eppure pare alimentarsi della propria inquietudine, non poter farne a meno, crogiolarsi in essa conscia dell’impossibilità di una soluzione.

Seppur secondario, l’impianto stilistico si nutre di geometrie accuratamente scelte, di accostamenti cromatici ma anche di tempistiche ben precise. Come contemporanei del suo tempo, in particolare Bresson, anche MA sottolinea l’artificiosità dell’insieme così da ricavare maggior attenzione su piani prettamente sensoriali, emotivi. L’esperimento del colore da parte del regista, come accennato, riesce qui perfettamente: il film è infatti ritenuto come uno dei primi e migliori esempi di fotografia nel cinema italiano; risulta magnificamente stimolante e, tramite l’uso impeccabile della cinepresa, la maestosità e la prolissità di quasi tutte le sequenze, collabora nel mettere in risalto la vacuità e la povertà dell’ambiente come delle espressioni e delle inquietudini dei protagonisti. Il cast, come spesso nei film di Antonioni, seppur valido, contribuisce con la sua prestazione a svalutare la pratica recitativa come propriamente intesa, dando maggiormente spazio all’interpretazione degli stati d’animo.

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 Voto: ★★★★/★★★★★

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3 risposte a Deserto Rosso

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  2. Pellicola, come quasi tutte quelle di Antonioni, sperimentale eppure dimostra un riuscita stilistica inarrivabile.

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